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Italia: il peggior paese del G20 per crescita salariale

Milano, 20/04/2025

Cosa sta succedendo agli stipendi italiani?

In un Paese che continua a parlare di ripresa, PIL in crescita e stabilità economica, c’è un dato che inquieta più di tutti: gli stipendi degli italiani sono ancora inferiori a quelli del 2008. Secondo l’ultimo “Rapporto mondiale sui salari” pubblicato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL ) nel marzo 2025, i salari reali in Italia sono calati dell’8,7% dal 2008 a oggi. Nessun altro Paese del G20 ha registrato una performance peggiore. Un crollo silenzioso che racconta molto più di una crisi economica: parla di lavoro che non vale più, di un Paese che sembra essersi dimenticato del valore del suo capitale umano.


1. Il dato allarmante: -8,7% in 17 anni

L’Italia è l’unico Paese del G20 dove i salari reali (cioè al netto dell’inflazione) sono ancora sotto i livelli pre-crisi del 2008. Il calo complessivo è dell’8,7%, una cifra che da sola basta a descrivere un’intera generazione di lavoratori che ha visto il proprio potere d’acquisto erodersi anno dopo anno. A confronto, in Giappone il calo è stato del 6,3%, in Spagna del 4,5% e nel Regno Unito solo del 2,5%. Alcuni Paesi, come la Corea del Sud, hanno invece registrato un aumento dei salari reali di oltre il 20%.


2. Perché l’Italia è ferma? Le radici di un declino strutturale

Il declino dei salari italiani non è un caso isolato né recente. Secondo l’ISTAT, la produttività del lavoro in Italia è cresciuta solo dello 0,4% annuo medio dal 1995 al 2023. Questo dato, incrociato con l’evoluzione dei salari nominali, mostra un disallineamento cronico tra retribuzioni e produttività. Nei Paesi più dinamici, la crescita salariale segue l’aumento della produttività. In Italia no: la crescita economica, anche quando c’è, non si traduce in buste paga più pesanti.


3. La falsa ripresa del 2024: +2,3% ma troppo tardi

Nel 2024, secondo l’OIL, c’è stata una lieve ripresa dei salari reali in Italia: +2,3%. Un dato che, letto isolatamente, potrebbe far pensare a una svolta. Ma se si guarda al -3,3% del 2022 e al -3,2% del 2023, si capisce che il recupero è minimo. Troppo poco per colmare il gap accumulato in oltre 15 anni. Intanto, l’inflazione corre, i mutui aumentano e il carrello della spesa pesa sempre di più sulle famiglie.


4. L’Italia e il paradosso della produttività

Nel resto d’Europa, i salari reali sono cresciuti di pari passo con la produttività. In Italia, invece, questa relazione si è spezzata. Le imprese lamentano il costo del lavoro, ma la verità è che spesso non investono in innovazione, formazione o digitalizzazione. Secondo un’analisi OCSE, l’Italia è tra i Paesi con il più basso tasso di investimento in capitale umano e aggiornamento delle competenze. Il risultato? Produttività stagnante e salari fermi.


5. Contratti nazionali e assenza di salario minimo legale

Nel nostro Paese, i salari sono determinati dalla contrattazione collettiva. Ma non sempre i contratti vengono rinnovati tempestivamente. Alcuni settori, come il commercio e i servizi, attendono rinnovi da anni. Inoltre, l’Italia non ha un salario minimo legale, a differenza di quasi tutti i Paesi UE. Una situazione che lascia scoperti milioni di lavoratori, soprattutto nei settori più deboli. Secondo l’INPS, oltre 3 milioni di italiani guadagnano meno di 9 euro l’ora.


6. Donne penalizzate (ma meno che altrove)

Una parziale nota positiva arriva sul fronte del gender gap: il divario salariale tra uomini e donne in Italia è del 9,3%, più basso della media UE (circa 12%). Tuttavia, questo dato va letto con cautela: molte donne italiane lavorano part-time o in settori a basso reddito. La parità salariale è ancora lontana, soprattutto se si guarda alla carriera e all’accesso a posizioni dirigenziali.


7. Lavoratori migranti: il divario salariale più profondo

I migranti guadagnano in media il 26,3% in meno rispetto ai lavoratori italiani. Un divario che non può essere spiegato solo con le qualifiche o il tipo di impiego. Discriminazione, esclusione e scarso riconoscimento delle competenze giocano un ruolo fondamentale. Secondo la Fondazione Leone Moressa, i migranti contribuiscono ogni anno con oltre 140 miliardi di euro al PIL italiano. Eppure, restano tra i più penalizzati.


8. I giovani: una generazione di precari e sottopagati

Chi ha iniziato a lavorare dopo il 2008 ha conosciuto solo precarietà e stipendi bassi. Secondo AlmaLaurea, nel 2024 il reddito medio di un laureato di primo livello a un anno dal titolo era di appena 1.384 euro netti al mese. La situazione è peggiore per chi non ha titoli universitari. Contratti a termine, part-time involontario, tirocini sottopagati: il mercato del lavoro italiano non offre prospettive, ma solo adattamento.


9. Il nodo delle politiche fiscali e previdenziali

Il cuneo fiscale in Italia è tra i più alti d’Europa: circa il 45% del costo del lavoro va in tasse e contributi. Le decontribuzioni parziali introdotte nel 2024 hanno avuto un effetto marginale. Inoltre, la pressione fiscale complessiva pesa soprattutto sui redditi da lavoro dipendente, mentre rendite e patrimoni restano tassati meno. Una riforma fiscale seria potrebbe liberare risorse e rilanciare i consumi, ma manca una volontà politica trasversale.


10. Soluzioni possibili: dalla contrattazione al salario minimo

Le organizzazioni sindacali chiedono l’introduzione di un salario minimo per legge, come in Germania e Francia. Anche alcune sigle datoriali sono favorevoli, purché si salvaguardi la contrattazione collettiva. Altri interventi auspicati: detassazione strutturale dei premi di produttività, incentivi alla formazione continua, rinnovi contrattuali automatici legati all’inflazione. Nessuna misura da sola può bastare, ma una combinazione coordinata può cambiare la rotta.


L’Italia è di fronte a un bivio. Continuare a ignorare la questione salariale, rifugiandosi nei numeri del PIL e nelle statistiche sull’occupazione, oppure affrontare il problema alla radice. Una società dove chi lavora non riesce a vivere dignitosamente è una società che si sgretola. L’aumento dei salari non è solo una questione economica: è una questione sociale, culturale e politica. Il tempo per intervenire è ora, prima che l’Italia diventi definitivamente il fanalino di coda del G20.


• Cosa pensi del calo dei salari italiani rispetto al 2008? È stato percepibile anche nella tua esperienza?

• Ritieni utile l’introduzione di un salario minimo legale in Italia?

• Come può lo Stato intervenire per riequilibrare la crescita tra produttività e retribuzioni?

Donald Trump: un rischio per la democrazia degli USA?

Milano, 20/04/2025

L’elezione di Donald Trump ha riacceso il dibattito sul futuro della democrazia americana e sulla stabilità economica del paese. Le sue politiche e dichiarazioni hanno sollevato preoccupazioni sia a livello nazionale che internazionale. Ma quali sono i reali rischi associati alla sua leadership?


1. La democrazia americana sotto pressione

L’insediamento di Trump ha messo a dura prova le istituzioni democratiche degli Stati Uniti. Le sue azioni e dichiarazioni hanno sollevato dubbi sulla sua adesione ai principi democratici fondamentali. Trump sembra considerare la democrazia come uno strumento per raggiungere il potere, piuttosto che un valore da preservare.  

Le politiche economiche di Trump, in particolare l’aumento dei dazi, hanno avuto effetti significativi sull’economia statunitense. L’economia americana rischia una recessione stagflazionistica, con un’inflazione elevata e una crescita stagnante. Le tariffe imposte hanno interrotto le catene di approvvigionamento e aumentato i costi per i consumatori.  


2. Tensioni con la Federal Reserve

Trump ha criticato pubblicamente il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, accusandolo di “giocare con la politica” e minacciando di rimuoverlo dall’incarico. Queste dichiarazioni hanno sollevato preoccupazioni sull’indipendenza della banca centrale e sulla stabilità dei mercati finanziari. 


3. Impatto sul dollaro e sulla fiducia globale

Le politiche economiche di Trump hanno indebolito la fiducia degli investitori nel dollaro americano. Secondo AP News, il dollaro ha subito un calo significativo rispetto ad altre valute, sollevando timori sulla sua posizione come valuta di riserva globale . La perdita di fiducia potrebbe avere implicazioni a lungo termine per l’economia statunitense. 


4. Politica estera e isolamento internazionale

La politica estera di Trump, caratterizzata da un approccio “America First”, ha portato a un isolamento crescente degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Le sue decisioni hanno indebolito le alleanze tradizionali e sollevato preoccupazioni tra i partner globali. 


5. Rischi per la stabilità interna

Le retoriche divisive di Trump hanno alimentato tensioni sociali e politiche all’interno degli Stati Uniti. Eventi come l’assalto al Campidoglio nel gennaio 2021 hanno evidenziato le profonde divisioni nel paese e la potenziale instabilità derivante da una leadership polarizzante.


La leadership di Donald Trump rappresenta una sfida significativa per la democrazia e l’economia degli Stati Uniti. Le sue politiche e dichiarazioni hanno sollevato preoccupazioni sia a livello nazionale che internazionale. È essenziale che cittadini, istituzioni e comunità globali rimangano vigili e impegnati nella difesa dei valori democratici e della stabilità economica..

A Torino apre il primo negozio di cani robot in Italia

Milano, 20/04/2025

Torino inaugura il primo negozio di cani robot in Italia: rivoluzione nella robotica civile e industriale

Torino si conferma città pioniera nell’innovazione tecnologica: a partire da giugno 2025, aprirà il primo negozio italiano interamente dedicato alla vendita di cani robotici e altri dispositivi autonomi intelligenti. L’iniziativa, unica nel suo genere, nasce dalla sinergia tra Robogest e Deri, due aziende italiane attive nel settore dell’intelligenza artificiale e della robotica applicata, e segna una svolta simbolica e operativa nell’impiego della robotica nella vita quotidiana.


Il negozio, che sorgerà nel centro di Torino, offrirà una vasta gamma di robot zoomorfi, progettati per adattarsi a contesti sia civili che industriali. Dalla semplice assistenza quotidiana alla sorveglianza, fino ad arrivare al supporto operativo in ambienti ostili, i “cani robot” sono pensati per svolgere compiti specifici in totale autonomia, sfruttando algoritmi avanzati e sensori intelligenti.


Il modello base, proposto a circa 2.000 euro, è adatto per compiti domestici e ricreativi, come il trasporto di piccoli oggetti o l’assistenza nei centri sportivi. I modelli avanzati, invece, possono arrivare a costare oltre 100.000 euro e sono progettati per operare in ambienti complessi: dagli stabilimenti industriali agli hotel, dai cantieri alle aree forestali, dove sono capaci di rilevare incendi, monitorare i parametri ambientali e pattugliare autonomamente le aree sensibili.


Se i componenti meccanici provengono da colossi internazionali come Deep Robotics e Inmotion, la vera innovazione arriva dall’Italia. I robot venduti a Torino saranno infatti equipaggiati con software e algoritmi sviluppati localmente, in Piemonte. Questo garantisce personalizzazione, adattabilità e l’integrazione con i sistemi già esistenti nei contesti di utilizzo.


L’obiettivo, spiegano i promotori, non è solo distribuire prodotti tecnologici, ma creare una cultura della robotica, offrendo anche formazione, consulenza e assistenza post-vendita. Il negozio sarà dunque anche un hub divulgativo, dove cittadini, imprese e istituzioni potranno toccare con mano le potenzialità della robotica del futuro.


L’impiego dei cani robot non si limita alla curiosità hi-tech: i primi acquirenti sono già all’opera in progetti concreti. Alcuni esemplari verranno utilizzati per la sorveglianza notturna di siti industriali, altri verranno destinati al monitoraggio ambientale nelle valli alpine piemontesi.


I robot, dotati di telecamere, visori termici e sistemi di comunicazione 5G, possono trasmettere dati in tempo reale alle centrali operative, riducendo i costi e aumentando la sicurezza. Il potenziale è enorme anche in ambito civile, dove questi dispositivi potrebbero diventare strumenti di supporto per anziani, persone disabili o bambini in ambienti controllati.


L’apertura del negozio non è casuale. Torino è da anni uno dei poli principali dell’innovazione italiana. Con il suo ecosistema di startup, centri di ricerca, università e imprese, la città rappresenta un terreno fertile per la sperimentazione e l’adozione di nuove tecnologie. Non a caso, diverse collaborazioni sono in corso con il Politecnico di Torino, con l’obiettivo di potenziare ulteriormente lo sviluppo software legato alla robotica.

L’avvento dei cani robot solleva interrogativi anche sul piano etico e sociale. Se da un lato rappresentano una soluzione concreta a problemi reali (carenza di personale, sicurezza, accessibilità), dall’altro pongono questioni sulla sostituzione del lavoro umano, sulla privacy e sull’interazione uomo-macchina.


Il futuro è ancora tutto da scrivere, ma una cosa è certa: la robotica non è più una questione da film di fantascienza. È qui, ora, e parla anche italiano.

Ungheria, la nuova stretta di Orbán: vietati i Pride

Milano, 20/04/2025

Mentre l’Europa cerca coesione e diritti condivisi, l’Ungheria vira ancora più decisamente verso una linea conservatrice e autoritaria. Viktor Orbán, primo ministro ungherese, alza l’asticella della repressione sociale e politica con un emendamento costituzionale che fa discutere tutta l’Unione Europea.


Negli ultimi anni, l’Ungheria ha più volte attirato l’attenzione della comunità internazionale per le sue posizioni controverse in materia di diritti civili. Ma quello approvato dal Parlamento ungherese il 14 aprile è un passo decisivo, e per molti versi inquietante. Con un voto a larga maggioranza (140 voti favorevoli contro 21 contrari), sono state approvate modifiche costituzionali che vietano il Pride, riconoscono solo due generi e introducono nuove limitazioni per chi ha la doppia cittadinanza.

La motivazione ufficiale? “Proteggere i bambini”, ha affermato Orbán in un tweet, esultando per l’approvazione della nuova legge. Ma per l’opposizione e per molti osservatori internazionali si tratta di una svolta ancora più autoritaria, una strategia per consolidare il potere e silenziare le voci dissidenti.


Le modifiche introducono alcuni punti chiave:

• Vietate le manifestazioni LGBTQ+, incluso il Gay Pride;

• Riconoscimento costituzionale solo di due generi: maschio e femmina, negando ogni forma di identità di genere diversa da quella assegnata alla nascita;

• Sospensione della cittadinanza per chi ha doppia nazionalità, considerato potenzialmente “pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale”;

• Limiti alle leggi d’emergenza con ampliamento dei poteri del governo in caso di crisi;

• Divieto totale su produzione, uso e promozione delle droghe.

Misure che, secondo il governo, sono volte alla tutela della moralità pubblica e dei minori. Ma che, nella pratica, rappresentano una chiara limitazione delle libertà civili, dei diritti umani e della pluralità di pensiero.


Mentre in Parlamento si votava, fuori centinaia di manifestanti si sono radunati per protestare. Alcuni hanno bloccato simbolicamente l’ingresso, ma sono stati rapidamente sgomberati dalla polizia. All’interno, i deputati dell’opposizione hanno srotolato uno striscione per denunciare la deriva autoritaria del governo.

La protesta continua anche nelle strade di Budapest, dove ogni settimana migliaia di cittadini scendono in piazza, spesso indossando una divisa grigia per denunciare la crescente uniformità imposta dal regime.


Le modifiche costituzionali sembrano colpire non solo la comunità LGBTQ+, ma anche chiunque possa rappresentare un ostacolo per Orbán: attivisti, giornalisti, organizzazioni non governative e persino alcuni cittadini stranieri con legami con l’Ungheria.


Sotto accusa, in particolare, i cittadini con doppia cittadinanza, che potrebbero perdere quella ungherese se ritenuti colpevoli di “interferenze straniere”.

Orbán cerca di spostare l’attenzione dai problemi economici e dal collasso dei servizi pubblici, puntando su tematiche identitarie e sull’agenda ultraconservatrice. Una strategia già vista in altri Paesi, che però rischia di portare l’Ungheria fuori dai valori fondamentali dell’Unione Europea.

Il governo spagnolo ha aumentato il salario minimo

Milano, 12/02/2025

Il governo spagnolo ha annunciato un aumento del 4,4% del salario minimo (SMI) per il 2025, portandolo a 1.184 euro lordi mensili distribuiti su 14 mensilità. Questo incremento, pari a 50 euro al mese, viene applicato retroattivamente a partire dal 1º gennaio 2025.  


Dal 2018, anno in cui il Partito Socialista è salito al governo, il salario minimo in Spagna è aumentato complessivamente del 60,9%, passando da 735,90 euro agli attuali 1.184 euro. Questo rappresenta il settimo incremento consecutivo sotto la guida socialista.  


L’aumento del salario minimo interesserà circa 2,4 milioni di lavoratori, con una prevalenza di donne e giovani. Secondo le stime, il 65,8% dei beneficiari sono donne, mentre il 26,8% sono giovani. Le regioni con il maggior numero di beneficiari sono l’Andalusia, seguita da Madrid.  


L’accordo per l’aumento del SMI è stato raggiunto tra il Ministero del Lavoro e i sindacati CCOO e UGT. La ministra del Lavoro, Yolanda Díaz, ha sottolineato l’importanza di questa misura per ridurre le disuguaglianze nel paese.  


Una novità significativa riguarda la tassazione del nuovo SMI. Per la prima volta, una parte dei lavoratori che percepiscono il salario minimo dovrà pagare l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPF). In particolare, i lavoratori single senza figli saranno soggetti a tassazione. Si stima che circa 500.000 lavoratori saranno interessati da questa novità fiscale.  


Mentre i sindacati hanno accolto positivamente l’aumento del salario minimo, sottolineando l’importanza della misura per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori a basso reddito, le associazioni datoriali hanno espresso preoccupazione riguardo ai possibili effetti negativi sull’occupazione e sulla competitività delle imprese. Nonostante queste divergenze, il governo ha proceduto con l’approvazione dell’aumento, ritenendolo un passo necessario per promuovere l’equità salariale.  

L’economia spagnola sta crescendo in maniera eccezionale

Milano, 12/02/2025

L’economia spagnola sta crescendo in maniera eccezionale, emergendo come una delle più dinamiche all’interno dell’Eurozona. Diversi fattori contribuiscono a questo successo, tra cui una crescita sostenuta del PIL, un mercato del lavoro resiliente, investimenti strategici e una gestione efficace delle risorse europee.


Nel 2024, il PIL spagnolo è cresciuto del 3,2%, superando la media dell’Eurozona e consolidando la posizione della Spagna come motore economico del blocco. Le previsioni per il 2025 indicano una crescita continua, con stime che variano tra il 2,3% e il 2,5%, a seconda delle fonti. Ad esempio, CaixaBank Research prevede una crescita del 2,3% per il 2025, mentre il governo spagnolo ha recentemente rivisto al rialzo le proprie previsioni, anticipando una crescita superiore al 2,4%.


Il mercato del lavoro spagnolo ha mostrato una notevole resilienza, con un tasso di disoccupazione in calo e una crescita del numero di occupati. Nel 2024, la creazione di nuove imprese ha raggiunto livelli record, con 117.990 società costituite, rappresentando un aumento del 9,1% rispetto all’anno precedente e segnando il valore più alto dal 2007. Questo dinamismo imprenditoriale è stato particolarmente evidente nei settori del commercio e delle attività immobiliari, finanziarie e assicurative.


La Spagna ha effettuato investimenti significativi in settori strategici come le infrastrutture, l’adattamento del tessuto produttivo e la promozione della conoscenza e dell’innovazione. Un esempio emblematico è il piano “Catalunya lidera”, che prevede investimenti per 18.500 milioni di euro nella regione catalana, con l’obiettivo di rafforzare la competitività e la leadership economica. Inoltre, startup innovative come Libeen, società specializzata nel modello di smart housing, stanno attirando finanziamenti significativi, evidenziando un ecosistema imprenditoriale in fermento.


L’efficace utilizzo dei fondi europei ha svolto un ruolo cruciale nella ripresa economica della Spagna. Queste risorse sono state indirizzate verso progetti che promuovono la sostenibilità, l’innovazione e la digitalizzazione, contribuendo a una crescita più equilibrata e sostenibile.


Nonostante i successi, la Spagna deve affrontare sfide persistenti, come la dipendenza dal turismo, un tasso di disoccupazione ancora elevato e la necessità di aumentare la produttività. Tuttavia, le riforme strutturali in corso e l’impegno verso la diversificazione economica posizionano il paese in una posizione favorevole per affrontare queste sfide e mantenere una traiettoria di crescita positiva.

Perché molti italiani sono nostalgici del fascismo

Milano, 11/02/2025

La nostalgia per il fascismo è un fenomeno complesso e radicato nella società italiana, che affonda le sue radici in una combinazione di fattori storici, culturali e sociali. Comprendere le ragioni di questa nostalgia richiede un’analisi approfondita delle dinamiche che hanno caratterizzato l’Italia nel corso del XX secolo e oltre.


Uno degli elementi chiave che contribuiscono alla nostalgia del fascismo è il mito degli italiani “brava gente”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si è diffusa l’idea che gli italiani fossero stati, tutto sommato, più umani e meno crudeli rispetto ad altri regimi totalitari. Questo mito ha permesso a molti di minimizzare o giustificare le responsabilità del regime fascista, alimentando una visione edulcorata del passato.  

Diversamente dalla Germania, l’Italia non ha affrontato in modo approfondito e collettivo le proprie responsabilità legate al periodo fascista. Questa mancata elaborazione ha portato a una sorta di rimozione collettiva, dove il fascismo è stato spesso percepito come un’anomalia o un errore temporaneo, piuttosto che come una parte integrante della storia nazionale.  


Nel dopoguerra, una serie di narrazioni distorte hanno contribuito a creare un’immagine positiva del fascismo. Frasi come “ha fatto anche cose buone” o “se solo non fosse entrato in guerra” sono diventate comuni, alimentando una percezione nostalgica e positiva del regime. Queste narrazioni sono spesso il risultato di campagne mediatiche e di una scarsa conoscenza storica.  


In periodi di crisi economica, sociale o politica, alcune persone tendono a idealizzare periodi storici percepiti come più stabili o prosperi. Il fascismo, con la sua enfasi sull’ordine e sull’unità nazionale, viene talvolta visto come un’epoca in cui lo Stato era forte e deciso, offrendo risposte semplici a problemi complessi.  


Alcuni movimenti e partiti politici contemporanei hanno utilizzato simboli, slogan o riferimenti che richiamano il periodo fascista, contribuendo a mantenere viva una certa nostalgia. Ad esempio, l’uso di motti come “Dio, Patria, Famiglia” o la presenza di simboli come la fiamma tricolore nel logo di alcuni partiti possono evocare riferimenti al passato fascista.  

Trump ha introdotto nuovi dazi all’Europa

Milano, 11/02/2025

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha recentemente annunciato l’imposizione di dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio provenienti dall’Europa, una decisione che ha suscitato reazioni immediate e preoccupazioni sia a livello internazionale che all’interno degli stessi Stati Uniti. Questa mossa, che entrerà in vigore il 12 marzo, solleva interrogativi sulle motivazioni che hanno spinto l’amministrazione Trump a intraprendere una tale azione e sulle possibili conseguenze per le relazioni transatlantiche e l’economia globale.


Le ragioni addotte dall’amministrazione Trump per l’introduzione di questi nuovi dazi sono molteplici. Innanzitutto, vi è la volontà di proteggere l’industria siderurgica e metallurgica statunitense dalla concorrenza estera, ritenuta sleale. Uno dei principali consiglieri economici del Tycoon ha dichiarato: “La produzione di acciaio è una componente importante della nuova età dell’oro promessa da Trump” .


Un’altra motivazione riguarda il deficit commerciale degli Stati Uniti con l’Unione Europea. Secondo i dati della Commissione Europea, l’UE ha un avanzo commerciale di 154 miliardi di euro in beni con gli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti mantengono un avanzo di 104 miliardi di euro nei servizi con l’UE, con un conseguente avanzo commerciale complessivo dell’UE del 3% su un flusso commerciale totale di 1,5 trilioni di euro.

Infine, la decisione potrebbe essere interpretata come una risposta alle misure dell’UE contro le imprese tecnologiche statunitensi e al deficit commerciale.


La reazione dell’Unione Europea non si è fatta attendere. La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che l’UE risponderà con “contramisure ferme e proporzionate” ai dazi imposti da Trump, sottolineando che tali misure sono “ingiustificate” e che l’UE proteggerà i propri interessi economici e i lavoratori.

Anche singoli Stati membri hanno espresso la loro posizione. La Francia, ad esempio, ha richiesto immediate contromisure da parte dell’UE, seguendo una linea già adottata nel 2018.


Al di fuori dell’Europa, anche altri Paesi hanno manifestato preoccupazione. Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha definito “inaccettabili” i dazi e ha promesso una risposta ferma, se necessario.


L’imposizione di dazi su acciaio e alluminio potrebbe avere diverse ripercussioni economiche. Per l’industria siderurgica europea, gli Stati Uniti rappresentano un mercato significativo.


Inoltre, vi è il timore che tali misure possano innescare una guerra commerciale, con effetti negativi su entrambe le sponde dell’Atlantico. Luis de Guindos, vicepresidente della Banca Centrale Europea, ha suggerito un approccio aperto nelle negoziazioni con l’amministrazione statunitense per evitare una guerra commerciale, pur senza permettere di essere sopraffatti.

2100: la popolazione mondiale sarà più povera o più ricca?

Milano, 09/02/2025

Le proiezioni economiche e demografiche per il 2100 sono complesse e soggette a numerose variabili, rendendo difficile una previsione precisa sul livello di ricchezza della popolazione mondiale rispetto a oggi.


Negli ultimi due secoli, l’economia globale ha registrato una crescita significativa. Dal 1950, il reddito medio pro capite è aumentato di 4,4 volte, mentre la popolazione mondiale è triplicata. Questo ha portato l’individuo medio odierno a un livello di ricchezza paragonabile a quello dei cittadini statunitensi nel 1950. Paesi come Taiwan, Corea del Sud e Cina hanno sperimentato incrementi sostanziali di benessere. Tuttavia, questa crescita non è stata uniforme, causando disuguaglianze economiche significative a livello globale.  


Le stime delle Nazioni Unite suggeriscono che la popolazione mondiale potrebbe raggiungere un picco di circa 10,3 miliardi di persone negli anni 2080, per poi diminuire leggermente a 10,2 miliardi entro il 2100. Questo cambiamento è attribuito principalmente a una diminuzione dei tassi di fertilità, specialmente in paesi come la Cina. Attualmente, oltre la metà delle nazioni ha tassi di fertilità inferiori al livello di sostituzione generazionale. Un calo della popolazione potrebbe ridurre la pressione sulle risorse ambientali, ma comporta sfide economiche legate all’invecchiamento della popolazione e alla sostenibilità dei sistemi previdenziali.  


Nonostante le potenziali riduzioni della popolazione, le sfide ambientali rimangono critiche. La necessità di ridurre l’impatto individuale delle attività umane sull’ambiente è fondamentale per garantire una crescita economica sostenibile. Il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l’esaurimento delle risorse naturali potrebbero influenzare negativamente la prosperità futura se non affrontati adeguatamente.  


Determinare se la popolazione mondiale nel 2100 sarà più ricca o più povera rispetto a oggi dipende da una molteplicità di fattori, tra cui le politiche economiche adottate, la gestione delle risorse ambientali e le dinamiche demografiche. Sebbene le tendenze storiche indichino una crescita del benessere, le sfide future richiedono interventi mirati per garantire una prosperità equa e sostenibile per le generazioni a venire.

Il sistema sanitario italiano è sempre più in crisi

Milano, 09/02/2025

Negli ultimi anni, il Sistema Sanitario Nazionale (SSN) italiano sta affrontando una crisi profonda, caratterizzata da una combinazione di fattori strutturali e finanziari che ne compromettono l’efficacia e l’universalità.


Uno dei problemi principali è la carenza di personale medico e infermieristico. Secondo un’analisi della Fondazione Gimbe, negli ultimi 11 anni il personale dipendente ha subito una perdita economica di 28,1 miliardi di euro, portando molti professionisti a lasciare il servizio pubblico a causa di turni massacranti, retribuzioni insufficienti e limitate prospettive di carriera.  


Parallelamente, si registra una riduzione significativa dei posti letto ospedalieri. Nel periodo dell’emergenza Covid, il numero dei posti letto è addirittura diminuito di 32.508 unità, passando da 257.977 nel 2020 a 225.469 nel 2022. Questo taglio ha comportato un aumento delle liste d’attesa e una diminuzione della capacità di risposta del sistema sanitario.  


Il sottofinanziamento cronico del SSN aggrava ulteriormente la situazione. L’Italia investe meno in sanità rispetto alla media dei Paesi OCSE membri dell’Unione Europea, con un divario di spesa sanitaria pubblica pro-capite di 889 euro. Questo gap finanziario limita la capacità del sistema di garantire servizi adeguati su tutto il territorio nazionale.  

Le disuguaglianze territoriali rappresentano un ulteriore elemento critico. Solo 13 regioni rispettano gli standard essenziali di cura, evidenziando un divario crescente tra Nord e Sud. Questo squilibrio costringe molti cittadini del Mezzogiorno a migrare verso il Nord per ottenere cure adeguate, con effetti economici devastanti sia per le famiglie che per i bilanci delle regioni meridionali.  


Infine, la crescente privatizzazione dei servizi sanitari sta trasformando radicalmente il panorama assistenziale italiano. Attualmente, almeno il 60% dei fondi pubblici destinati alla sanità finisce in mano ai privati, con oltre il 50% delle strutture che si occupano di malattie croniche gestite da enti privati. Questo processo rischia di compromettere l’universalità del diritto alla salute, penalizzando le fasce più deboli della popolazione.  

Quali saranno i nuovi lavori nel 2100?

Milano, 09/02/2025

Proiettarsi nel 2100 significa immaginare un mondo profondamente trasformato dalla tecnologia, dalla demografia e dalle sfide ambientali. Le professioni emergenti rifletteranno queste dinamiche, richiedendo competenze avanzate e una costante adattabilità.


Con l’acuirsi degli effetti del cambiamento climatico, aumenterà la domanda di professionisti capaci di sviluppare strategie innovative per ripristinare gli ecosistemi e mitigare l’impatto umano sull’ambiente. Gli ingegneri ecologici e gli specialisti del clima saranno fondamentali nell’implementazione di soluzioni sostenibili per le comunità globali.  


L’avanzamento delle neurotecnologie porterà alla diffusione di impianti cerebrali e neuroprotesi per trattare diverse condizioni. I neuropraticanti saranno i medici specializzati nell’installazione e nella manutenzione di questi dispositivi, contribuendo al miglioramento delle capacità umane.  


Con l’espansione del turismo spaziale e delle attività commerciali oltre l’atmosfera terrestre, emergerà la necessità di medici, avvocati e guide specializzati in ambito spaziale. Questi professionisti garantiranno assistenza medica, consulenza legale e orientamento ai viaggiatori nello spazio.  


L’integrazione dell’intelligenza artificiale in vari settori richiederà esperti in grado di sviluppare, gestire e migliorare sistemi autonomi. Questi professionisti saranno essenziali per garantire un’interazione sicura ed efficiente tra umani e macchine intelligenti.  

La crescente disponibilità di dati e le innovazioni nel campo delle biotecnologie creeranno opportunità per analisti capaci di interpretare informazioni complesse e per esperti in grado di sviluppare soluzioni biotecnologiche avanzate. Queste professioni saranno cruciali per affrontare sfide sanitarie e ambientali future.  


In sintesi, il panorama professionale del 2100 sarà caratterizzato da ruoli focalizzati su sostenibilità, tecnologia avanzata e adattamento alle nuove sfide globali. La formazione continua e l’adattabilità saranno elementi chiave per prosperare in questo futuro in continua evoluzione.

Valditara: “Patriarcato non c'è, violenza per immigrazione"

Milano, 24/10/2024

Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha scatenato un acceso dibattito durante la presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin alla Camera dei deputati. In un videomessaggio, Valditara ha negato l’esistenza del patriarcato come struttura sociale, descrivendolo come un fenomeno giuridico ormai superato con la riforma del diritto di famiglia del 1975. Inoltre, ha attribuito parte dell’incremento della violenza sessuale in Italia a forme di marginalità legate all'immigrazione irregolare.


Secondo Valditara, il patriarcato come fenomeno giuridico non esiste più, sostituito dalla parità sancita dalle leggi moderne. Tuttavia, ha ammesso che persistono residui di maschilismo e machismo nella società, manifestati attraverso violenze di genere e discriminazioni. Il ministro ha sottolineato la necessità di affrontare i problemi individualmente, rifiutando la visione ideologica che identifica il patriarcato come la causa principale delle disuguaglianze e violenze.


Gino Cecchettin, padre di Giulia, ha replicato con fermezza alle dichiarazioni di Valditara. Ha definito la violenza un problema universale, indipendente dall'origine geografica o culturale, invitando a focalizzarsi sull’educazione e sull’amore come strumenti di contrasto. Ha evidenziato che negare il patriarcato non ne cancella gli effetti sociali, ritenendolo un concetto ancora rilevante nella comprensione delle disuguaglianze di genere.


L’affermazione del ministro secondo cui l'immigrazione irregolare contribuisce all'aumento delle violenze sessuali è stata oggetto di contestazioni. Vari analisti e attivisti hanno evidenziato che tali dichiarazioni, se non supportate da dati chiari, rischiano di alimentare stereotipi xenofobi. I recenti Istat e dei centri antiviolenza Di.Re mostrano che la violenza sulle donne è prevalentemente commessa in ambito familiare o affettivo, indipendentemente dalla nazionalità degli autori.

La mobilitazione studentesca fa congelare legami con Israele

Milano, 24/10/2024

Il movimento studentesco pro Palestina ha ottenuto una significativa vittoria: l’Università Statale di Milano ha deciso di congelare i propri accordi con l’Università israeliana Reichman. La notizia, diffusa dai Giovani Palestinesi e dall’Unione degli universitari, segna il culmine di una campagna di protesta iniziata nella primavera scorsa. La decisione è giunta dopo un incontro tra le organizzazioni studentesche e la nuova rettrice, Marina Brambilla, lo scorso 18 ottobre, e ha effetto immediato.


Questa vittoria segue una lunga serie di pressioni da parte degli studenti, che avevano già ottenuto lo scioglimento degli accordi con la Ariel University, situata negli insediamenti illegali in Cisgiordania. Anche l’Università di Palermo aveva preso una decisione simile a giugno, interrompendo i propri legami con le università di Israele. Con l’ultima decisione, la Statale di Milano non intrattiene più alcuna collaborazione con atenei israeliani.


Il movimento studentesco è stato caratterizzato da una mobilitazione costante e diffusa, che ha portato avanti le sue rivendicazioni contro le collaborazioni accademiche con istituzioni legate, in maniera diretta o indiretta, alle forze militari israeliane. La Reichman University, per esempio, è stata al centro delle critiche proprio per il suo stretto legame con l’esercito israeliano: l’ateneo organizza conferenze annuali per alti ufficiali militari e offre borse di studio ai membri o ex-membri delle forze armate, definiti futuri leader del paese. Gli studenti hanno puntato il dito contro queste connessioni, considerandole parte di un sistema che legittima e sostiene l’occupazione e le violazioni dei diritti umani in Palestina.

Inoltre, la “intifada studentesca” non si è fermata ai confini italiani. A partire dalla metà del 2023, il movimento è cresciuto a livello globale, con proteste in numerosi paesi: dagli Stati Uniti al Canada, dal Regno Unito alla Francia, fino al Medioriente. La richiesta comune è di interrompere qualsiasi forma di collaborazione con istituzioni accademiche israeliane, considerate complici nell’occupazione dei territori palestinesi.


L’iter che ha portato al congelamento degli accordi con la Reichman è stato lungo e complesso. Già a maggio, sotto la precedente guida del rettore Elio Franzoni, la richiesta degli studenti era arrivata al Senato accademico, ma era stata bocciata nonostante il sostegno di una parte dei rappresentanti studenteschi. L’elezione di Marina Brambilla a rettrice ha segnato un punto di svolta: la nuova guida ha ascoltato le istanze degli studenti e ha optato per il congelamento dei rapporti, a seguito delle nuove pressioni arrivate in autunno. Questo cambio di rotta è stato accolto con entusiasmo dalle organizzazioni studentesche, che hanno definito la decisione “straordinaria” e hanno rilanciato la propria mobilitazione a livello nazionale.


La scelta di congelare gli accordi con la Reichman University ha un significato simbolico potente. Non si tratta solo di interrompere uno scambio accademico, ma di colpire “il cuore del sistema accademico sionista”, come dichiarato dai portavoce del movimento.

Nonostante il successo ottenuto a Milano, gli attivisti non intendono fermarsi. Il movimento ha già annunciato che l’obiettivo è estendere la mobilitazione a tutte le università italiane, invitando gli studenti a seguire l’esempio della Statale di Milano e di Palermo. L’intento è quello di smantellare i legami accademici con tutte quelle istituzioni considerate compromesse da relazioni con conflitti, militarizzazione o pratiche di sfruttamento. Questo percorso, ribadiscono gli studenti, è solo all’inizio.

Accordo Italia-Albania sui migranti, l’UE attacca

Milano, 21/10/2024

La gestione dei flussi migratori continua a rappresentare un terreno di scontro tra istituzioni italiane ed europee. Al centro delle polemiche c’è il controverso accordo Italia-Albania, che prevede il rimpatrio dei migranti dai centri italiani in Albania. Le critiche sono esplose dopo che il tribunale di Roma ha bloccato il rimpatrio di 12 migranti verso l’Egitto e il Bangladesh, ritenendo questi Paesi “non sicuri”, in linea con una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE). Questa decisione ha riacceso il dibattito politico e istituzionale, sollevando questioni cruciali sulla conformità delle politiche italiane al diritto europeo.


In seguito alla sentenza del tribunale, la Commissione Europea ha chiarito che le misure italiane in tema di migrazione devono rispettare pienamente il diritto comunitario. Anita Hipper, portavoce della Commissione, ha sottolineato che, pur applicando il diritto nazionale, il protocollo tra Italia e Albania deve comunque conformarsi agli standard stabiliti a livello europeo. "Tutte queste misure non devono indebolire l'applicazione del diritto dell'UE", ha precisato Hipper.


In assenza di una lista comune di Paesi terzi considerati "sicuri", attualmente ogni Stato membro dell'UE gestisce le proprie liste nazionali. Tuttavia, la Commissione ha dichiarato che si sta lavorando a un elenco condiviso a livello europeo, che entrerà in vigore entro il 2026. Questo periodo di transizione lascia l'Italia a confrontarsi con il diritto europeo esistente, che non permette un'applicazione flessibile del concetto di Paese sicuro fino a quel momento.


Il governo italiano non ha tardato a reagire. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha riaffermato la determinazione dell'esecutivo nel difendere i confini nazionali, ribadendo che "in Italia si entra solo legalmente". Meloni ha promesso un impegno costante per smantellare le reti criminali che lucrano sul traffico di esseri umani, definendo questi trafficanti come "gli schiavisti del Terzo Millennio".


Il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, ha espresso preoccupazione per le posizioni di coloro che sostengono una "accoglienza indiscriminata", affermando che tali politiche favoriscono indirettamente i gruppi criminali. Piantedosi ha lodato l'operazione della Guardia di Finanza, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, che ha portato all'arresto di 13 membri di un'organizzazione transnazionale responsabile del traffico di migranti irregolari.


Le tensioni non si limitano alle dinamiche europee, ma si estendono anche al fronte interno. Il ministro dei Trasporti e vicepremier Matteo Salvini ha criticato duramente il magistrato Marco Patarnello, chiedendo il suo allontanamento dopo che quest’ultimo avrebbe espresso critiche nei confronti del governo in una e-mail. Salvini ha attaccato il giudice, sostenendo che chi utilizza il tribunale come "un luogo di vendetta politica" non è adatto a ricoprire il ruolo di magistrato.


A sua volta, il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Giuseppe Santalucia, ha difeso l'autonomia della magistratura, sottolineando che il potere giudiziario non è "contro il governo", ma cerca di difendere la propria indipendenza. Santalucia ha ricordato che l'attuale normativa, basata su direttive europee, deve essere applicata fino a quando nuove disposizioni non entreranno in vigore nel 2026.


Per rispondere alla sentenza del tribunale di Roma e chiarire la definizione di "Paesi sicuri" per il rimpatrio, il governo italiano ha convocato un Consiglio dei ministri. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha definito la sentenza del tribunale "abnorme", scatenando ulteriori polemiche con la magistratura. L'esecutivo ha già annunciato che presenterà ricorso contro la decisione, con l'obiettivo di superare l'impasse giudiziaria e rafforzare le proprie politiche migratorie.

Mattarella: “Tra riforme indifferibili quella della difesa

Milano, 12/10/2024

 

“Il nostro Continente si trova ad affrontare grandi sfide di diversa natura: da quelle climatiche a quelle geopolitiche. Questo ci richiama all'urgenza di compiere passi avanti affinché l'Unione sia in grado di rispondervi con efficacia e tempestività, assumendo il ruolo e le responsabilità che le competono. Tra queste sfide e riforme - indifferibili - vi è quella della difesa comune dell'Unione europea”, lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parlando al vertice Arraiolos di Cracovia.


Il vertice Arraiolos, che si è tenuto a Cracovia il 10-11 ottobre 2024, ha riunito i presidenti di 11 paesi europei, tra cui Italia, Polonia, Germania, Bulgaria, Croazia, Grecia, Estonia, Slovenia, Lettonia, Ungheria e Slovacchia. La presidenza polacca ha impostato i lavori sul rafforzamento dei legami transatlantici, portando l’attenzione sugli sviluppi della guerra in Ucraina.


Nel suo discorso, Mattarella ha evidenziato le grandi sfide che l'Europa deve affrontare, tra cui quelle climatiche e geopolitiche. Ha sottolineato l'importanza di un'azione tempestiva e efficace da parte dell'Unione Europea, che deve assumere il ruolo e le responsabilità che le competono. Tra le riforme indifferibili, Mattarella ha menzionato la difesa comune dell'Unione europea, un tema che ha sollevato molte discussioni durante il vertice.

La dichiarazione di Mattarella ha ricevuto reazioni positive da parte di molti leader europei, che hanno sottolineato l'importanza di una difesa comune per garantire la sicurezza e la stabilità del continente. Tuttavia, sarà davvero possibile implementarla senza il pieno sostegno di tutti i paesi membri?


La proposta di una difesa comune rappresenta un passo significativo per l'Unione Europea, che ha storicamente affidato la propria sicurezza alla NATO. La creazione di una difesa comune potrebbe rafforzare la posizione dell'UE sul palco internazionale e migliorare la cooperazione tra i paesi membri.

100mila giovani hanno lasciato l’Italia in due anni

Milano, 25/09/2024

Negli ultimi anni, l'Italia sta affrontando una crisi demografica e sociale sempre più evidente a causa dei moltissimi giovani che decidono di lasciare il Paese. Tra il 2021 e il 2023, più di 100.000 giovani italiani sono emigrati all'estero, spinti da prospettive di lavoro migliori, stipendi più alti e condizioni contrattuali stabili che non trovano in Italia. Il fenomeno della cosiddetta “fuga dei cervelli” è un problema che affonda le sue radici in criticità strutturali del mercato del lavoro italiano e sta creando una profonda ferita economica e sociale.


Uno dei motivi principali che spinge i giovani a lasciare l’Italia è il basso livello salariale. Secondo l'OCSE, l'Italia è uno dei pochi Paesi occidentali in cui i salari medi sono calati negli ultimi decenni. In molti casi, i giovani, anche con lauree e specializzazioni, si ritrovano a guadagnare stipendi sotto la soglia dei 1.000 euro al mese. Questa situazione è aggravata dall’assenza di un salario minimo nazionale, che porta i lavoratori più giovani e meno esperti a doversi accontentare di retribuzioni ben al di sotto della media europea.

Un altro fattore determinante è la precarietà contrattuale. 


Molti giovani lavoratori sono assunti con contratti a tempo determinato o con modalità lavorative precarie, come i contratti di collaborazione o di prestazione occasionale. Questa mancanza di stabilità rende difficile pianificare il futuro, acquistare una casa o persino pensare a mettere su famiglia. Gli effetti sono devastanti anche dal punto di vista psicologico: molti giovani percepiscono un senso di frustrazione e disillusione nei confronti di un sistema che non offre loro le opportunità adeguate per crescere.


A peggiorare la situazione, c’è l’abuso dei tirocini formativi, che spesso si trasformano in veri e propri strumenti di sfruttamento da parte delle aziende. Molte imprese, specialmente nel settore dei servizi e in quello culturale, offrono tirocini senza alcuna retribuzione o con compensi simbolici, pur richiedendo ai tirocinanti prestazioni lavorative simili a quelle di un impiegato a tempo pieno. I giovani, costretti a scegliere tra l’accettare queste condizioni per fare esperienza o rimanere disoccupati, si trovano spesso incastrati in un ciclo di lavoro non retribuito e precarietà senza prospettive di crescita.

Tra il 2015 e il 2020 circa 250.000 giovani italiani sotto i 30 anni hanno lasciato il Paese in cerca di migliori opportunità all'estero, e questo trend non ha mostrato segnali di rallentamento neanche negli anni successivi.


Le destinazioni preferite includono Paesi come Germania, Regno Unito, Francia e Stati Uniti, dove i salari sono significativamente più alti e le possibilità di carriera molto più solide.

La fuga dei giovani italiani ha un costo enorme non solo dal punto di vista demografico, ma anche economico. Si stima che ogni anno l’Italia perda circa 14 miliardi di euro a causa dell'emigrazione giovanile. Questo dato rappresenta una perdita significativa di capitale umano: lo Stato investe nella formazione di questi giovani, attraverso il sistema educativo, ma è poi un altro Paese a beneficiare delle loro competenze.


Inoltre, la partenza di giovani laureati o specializzati contribuisce ad ampliare il divario tra l’Italia e gli altri Paesi europei in termini di innovazione e competitività economica. Le aziende italiane spesso non riescono a trovare i profili professionali adeguati per competere in settori ad alta specializzazione, aggravando ulteriormente il problema della scarsa crescita economica del Paese.


Nel tentativo di arginare il fenomeno, negli ultimi anni diversi governi hanno cercato di introdurre misure per incentivare il rientro dei giovani emigrati. Tra le principali misure, ci sono sgravi fiscali per i lavoratori italiani che tornano in patria e agevolazioni per le aziende che assumono giovani professionisti rientrati dall'estero. Tuttavia, queste politiche sono spesso considerate insufficienti di fronte alla scala del problema.


Secondo diversi esperti, per affrontare efficacemente la questione, l’Italia dovrebbe investire di più in politiche attive per il lavoro, come la creazione di nuove opportunità di impiego nel settore delle tecnologie e dell’innovazione. Inoltre, sarebbe necessario introdurre un salario minimo nazionale, che garantisca ai giovani lavoratori retribuzioni adeguate al costo della vita e che impedisca alle aziende di sfruttare forza lavoro sottopagata.

L’UE punta a creare la prima “generazione senza tabacco”

Milano, 24/09/2024

L’Unione Europea ha lanciato una nuova offensiva contro il fumo, puntando a creare una “Generazione senza tabacco” entro il 2040. Questa iniziativa ambiziosa si inserisce nel quadro del Piano europeo contro il cancro e mira a ridurre drasticamente il numero di fumatori, con l’obiettivo di avere meno del 5% della popolazione che consuma tabacco entro quell’anno. Il fumo rimane infatti la principale causa prevenibile di morte nell’Unione, responsabile di oltre un quarto dei decessi per cancro e di numerosi problemi cardiovascolari e respiratori. Negli ultimi decenni, l’Europa ha già implementato una serie di misure per contrastare il tabagismo, ma l’introduzione di prodotti emergenti come le sigarette elettroniche e i dispositivi a tabacco riscaldato ha reso necessaria una revisione delle regole.


La Commissione Europea ha recentemente presentato nuove raccomandazioni che chiedono di estendere il divieto di fumo a numerosi spazi all’aperto. Tra questi, figurano aree frequentate da bambini e giovani, come parchi, piscine, fermate di trasporto pubblico, cortili di scuole e ospedali, oltre alle aree esterne di ristoranti, bar e caffè. L’obiettivo principale è quello di proteggere i più vulnerabili dall’esposizione al fumo passivo e agli aerosol, ma anche di contribuire a disincentivare il consumo di prodotti del tabacco e dei nuovi dispositivi che li contengono. Anche i prodotti senza nicotina sono inclusi nel divieto, in quanto ritenuti in grado di indurre dipendenza e di favorire l’avvicinamento al tabagismo tra i giovani.


Un altro aspetto chiave della proposta è la regolamentazione dei dispositivi emergenti, come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato, che hanno guadagnato una popolarità crescente, soprattutto tra i giovani. Nonostante le affermazioni di alcune aziende produttrici che li presentano come alternative meno nocive rispetto alle sigarette tradizionali, la scienza ha evidenziato i rischi potenziali di questi prodotti, tra cui la dipendenza da nicotina e i danni alla salute polmonare e cardiovascolare. La Commissione Europea ha espresso preoccupazione per il fatto che molti utilizzatori di questi prodotti finiscono per consumare sia il tabacco tradizionale che i nuovi dispositivi, vanificando gli sforzi di riduzione del consumo complessivo di tabacco.


La strategia dell’Unione Europea, pur essendo accolta con favore da molti esperti di sanità pubblica, ha suscitato critiche da parte dell’industria del tabacco e di alcuni governi nazionali. Le aziende del settore temono che la regolamentazione stringente possa compromettere il mercato legale del tabacco, spingendo i consumatori verso il mercato nero. Inoltre, alcuni governi sono preoccupati per l’impatto economico che le nuove misure potrebbero avere sui piccoli rivenditori. Tuttavia, la Commissione ha sottolineato che le raccomandazioni sono un passo necessario per proteggere la salute pubblica e ridurre i costi sanitari a lungo termine legati alle malattie causate dal fumo.


La Commissione Europea, attraverso i programmi EU4Health e Horizon, ha previsto finanziamenti significativi per sostenere gli Stati membri nell’implementazione delle nuove misure. Questi fondi saranno utilizzati per migliorare il controllo del tabacco, promuovere la prevenzione delle dipendenze e sviluppare strumenti educativi per i giovani. Il piano prevede anche un rafforzamento della cooperazione internazionale, affinché i Paesi membri condividano le pratiche migliori, garantendo un impatto più ampio delle politiche antifumo in tutto il continente.

Fumare e svapare insieme quadruplica il rischio di cancro

Milano, 24/09/2024

Negli ultimi anni, l’uso delle sigarette elettroniche, o e-cig, è aumentato esponenzialmente, in quanto considerato un’alternativa meno dannosa rispetto al fumo tradizionale. Tuttavia, recenti studi hanno sollevato preoccupazioni significative riguardo ai rischi associati alla combinazione di fumo e svapo.


La combinazione di fumo tradizionale e svapo è diventata una pratica comune tra coloro che cercano di ridurre il consumo di tabacco. Tuttavia, uno studio recente condotto dalla Ohio State University ha rivelato che questa combinazione può essere estremamente pericolosa. I ricercatori hanno scoperto che il rischio di sviluppare un tumore al polmone è quattro volte maggiore per coloro che fumano e svapano rispetto a chi utilizza solo sigarette tradizionali e otto volte superiore rispetto a chi non fuma.


Lo studio ha analizzato le abitudini di fumo di quasi cinquemila adulti con diagnosi di tumore al polmone, confrontandole con quelle di un gruppo di controllo di 27.000 adulti sani. I risultati hanno mostrato che l’uso combinato di sigarette tradizionali ed elettroniche era otto volte più frequente tra i pazienti con cancro al polmone rispetto al gruppo di controllo. Questo dato suggerisce un legame significativo tra la combinazione di fumo e svapo e l’aumento del rischio di tumore.


La decomposizione termica degli umettanti e delle sostanze aromatiche presenti nei liquidi per sigarette elettroniche può portare alla formazione di aldeidi carboniliche, come l’acroleina, l’acetaldeide e la formaldeide, che sono noti cancerogeni. Inoltre, la nicotina contenuta nelle e-cig può causare danni ai polmoni simili a quelli provocati dal fumo di tabacco, aumentando ulteriormente il rischio di tumore.

Italiani ultimi in Europa per i pagamenti digitali

Milano, 20/09/2024

I pagamenti digitali stanno diventando la norma in quasi tutto il mondo, ma l’Italia continua a distinguersi per la sua persistente preferenza per il contante. Secondo un recente rapporto del centro studi di Unimpresa, gli italiani prelevano un miliardo di euro al giorno dai bancomat, rendendo il nostro Paese l’ultimo in Europa per l’uso di metodi di pagamento alternativi al contante.


Nonostante l’aumento dell’uso di carte di credito e prepagate, il contante rimane il metodo di pagamento preferito dagli italiani. Nel 2023, sono stati prelevati 360 miliardi di euro dagli sportelli bancomat, 10 miliardi in più rispetto al 2022 e 18 miliardi in più rispetto al 2021. Questo dato evidenzia una crescita costante nell’uso del contante, nonostante le numerose campagne a favore dei pagamenti digitali.


L’Italia si posiziona all’ultimo posto nell’area euro per l’uso di strumenti di pagamento diversi dal contante. Con una media di sole 200 operazioni pro capite eseguite con carte di credito, bonifici e assegni, l’Italia è ben al di sotto della media europea di 370 operazioni per cittadino. Paesi come la Francia, la Germania e la Spagna registrano rispettivamente 424, 329 e 290 operazioni per abitante, mentre i Paesi Bassi e la Finlandia raggiungono cifre ancora più elevate, con 670 e 598 operazioni pro capite.


Diversi fattori contribuiscono alla preferenza degli italiani per il contante. La cultura del contante è profondamente radicata nella società italiana, dove il denaro fisico è spesso percepito come più sicuro e tangibile rispetto ai pagamenti digitali. Inoltre, il contante offre un livello di anonimato che i pagamenti elettronici non possono garantire, un aspetto particolarmente apprezzato in un contesto di crescente preoccupazione per la privacy e la sicurezza dei dati.


La pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto significativo sulle abitudini di pagamento in tutto il mondo, ma in Italia il contante ha mantenuto una posizione dominante. Nonostante un aumento nell’uso di carte di credito e prepagate durante i periodi di lockdown, il contante è tornato rapidamente a essere il metodo di pagamento preferito una volta allentate le restrizioni. Questo fenomeno suggerisce una resilienza culturale che resiste ai cambiamenti imposti dalle circostanze esterne.


Nonostante la forte preferenza per il contante, ci sono segnali di cambiamento. Le autorità italiane e le istituzioni finanziarie stanno promuovendo attivamente l’uso di metodi di pagamento digitali attraverso campagne di sensibilizzazione e incentivi fiscali. La Banca d’Italia, ad esempio, ha lanciato diverse iniziative per migliorare l’affidabilità e l’efficienza degli strumenti di pagamento elettronici, con l’obiettivo di modernizzare le abitudini di pagamento dei cittadini.

Il 2023 è stato un anno record per la spesa militare

Milano, 10/09/2024

La spesa militare globale ha raggiunto un nuovo massimo storico di 2.443 miliardi di dollari nel 2023, segnando un aumento del 6,8% rispetto all'anno precedente. Questo incremento rappresenta il sesto anno consecutivo di crescita, evidenziando una tendenza costante iniziata nel 2017. Gli Stati Uniti mantengono il primato con il 38% della spesa mondiale, anche se il loro budget è rimasto stabile.


In Europa, si osserva un significativo cambiamento con un aumento senza precedenti della spesa militare del 14%. L'Ucraina ha registrato l'incremento maggiore, con un balzo del 51%, facendo sì che la spesa militare costituisca oltre il 36% del suo PIL nel 2023. Anche la Russia ha visto aumentare le proprie spese militari, con un incremento del 24%, portando il totale a 109 miliardi di dollari, equivalenti al 5,9% del PIL.


Secondo il rapporto annuale "Aerospace, Defense and Aviation Outlook 2024" di AlixPartners, l'industria della difesa continuerà a crescere nel 2024, trainata dall'aumento delle spese militari dovuto ai conflitti in corso. Anche l'industria spaziale è in crescita, raggiungendo un valore di 510 miliardi di dollari, registrando un +6,3% nel 2023.

Le esportazioni globali dell'industria della difesa hanno subito una riduzione del 3%, principalmente a causa della diminuzione delle esportazioni dalla Russia (-53%) e dalla Cina (-5%). Tuttavia, le esportazioni statunitensi sono aumentate del 17%, quelle europee del 5%, e quelle dell'area Asia-Pacifico del 13%, con la Corea del Sud in testa.


Nel 2023, i membri della NATO hanno rappresentato il 55% della spesa militare globale, con gli Stati Uniti che contribuiscono al 68% della spesa totale dell'alleanza. La maggior parte dei membri europei della NATO ha aumentato la propria spesa militare, con undici paesi che hanno raggiunto o superato l'obiettivo del 2% del PIL destinato alla difesa.


In Italia, invece, la spesa militare è diminuita del 5,9% nel 2023, attestandosi a 35,5 miliardi di dollari, che rappresentano l'1,6% del PIL. Nonostante questa riduzione, la spesa militare italiana è cresciuta del 31% rispetto al 2014.

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