La questione del fine vita torna al centro del dibattito pubblico. Domenica 27 aprile il TAR dell’Emilia-Romagna ha sospeso le delibere regionali che regolavano il suicidio medicalmente assistito, accogliendo il ricorso di Valentina Castaldini (Forza Italia). La sospensione è stata disposta in vista dell’udienza collegiale fissata per il 15 maggio. Finora in Emilia-Romagna erano già stati avviati due procedimenti di fine vita, con due pazienti che avevano potuto accedere alla procedura assistita; adesso tutto è sospeso in attesa della decisione del tribunale.
In Italia non esiste ancora una legge nazionale unitaria sul fine vita, lasciando un vuoto normativo che si trascina da anni. Nel 2019 la Corte costituzionale, nella cosiddetta “sentenza Cappato”, ha stabilito che non è punibile chi aiuta un paziente irreversibilmente malato e tenuto in vita da trattamenti di sostegno ad attuare la sua volontà di morire, purché siano rispettate precise condizioni di sofferenza intollerabile e capacità di scelta autonoma. In attesa dell’intervento del legislatore, non esistono però procedure uniformi a livello nazionale. Diverse proposte di legge sul suicidio assistito languono in Parlamento, e anche un referendum popolare è allo studio. Nel frattempo le regioni hanno cercato soluzioni proprie.
La Regione Toscana è stata la prima in Italia ad approvare a inizio 2025 una legge regionale sul suicidio assistito, grazie ad una proposta d’iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni. La norma toscana stabilisce tempi certi e linee guida per accedere al suicidio assistito e recepisce le indicazioni della Corte costituzionale. L’Emilia-Romagna invece aveva tentato di dare attuazione pratica al diritto alla morte assistita tramite due delibere di giunta approvate nel febbraio 2024, che istituivano commissioni mediche e comitati etici incaricati di valutare le richieste dei pazienti. Queste delibere sono ora bloccate dal TAR fino al pronunciamento di maggio.
Il TAR dell’Emilia-Romagna ha dunque accolto l’istanza di sospensiva presentata da Castaldini, fissando la discussione collegiale al 15 maggio. L’atto sospende immediatamente l’efficacia delle delibere regionali sul suicidio assistito. Secondo i giudici amministrativi, è necessaria una discussione approfondita sul merito della questione prima di procedere oltre, in quanto l’oggetto è particolarmente delicato. Nel frattempo, come detto, due pazienti hanno completato l’iter previsto dalla Regione per il suicidio assistito e un terzo caso è in fase di valutazione presso il Comitato regionale per l’etica in clinica. Proprio l’emergere di questa terza richiesta aveva indotto Castaldini a sollecitare la sospensione: temeva che, continuando l’applicazione della delibera, altri pazienti potessero “porre fine alle loro sofferenze” secondo regole regionali che a suo avviso non avrebbero dovuto sostituirsi alla legge nazionale.
Castaldini ha spiegato le sue ragioni dichiarando che «una delibera regionale non può sostituire una legge nazionale su un tema così delicato». In particolare la consigliera di Forza Italia ha posto l’accento sul fatto che l’iter approvato dall’Emilia-Romagna – gestito dall’esecutivo regionale piuttosto che dal Consiglio – bypassava un confronto parlamentare più ampio. Castaldini ha sollevato dubbi sulla composizione del Comitato medico e sulla trasparenza del processo decisionale, sostenendo che il diritto alla fine della vita esige “un confronto parlamentare serio, ampio e condiviso” e non un semplice atto amministrativo. Ha definito la sua battaglia non solo giuridica, ma anche di “difesa dei principi etici e democratici fondamentali”, in linea con quanto auspicato dalla Corte costituzionale di operare nel rispetto della volontà del malato.
Anche il Governo nazionale si è mosso sul fronte legale. Il 12 aprile scorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Salute hanno presentato al TAR un ricorso analogo a quello di Castaldini. Il Governo contesta le stesse delibere dell’Emilia-Romagna, sostenendo che esse eccedano i poteri regionali e violino le competenze nazionali in materia di sanità. L’intervento statale mira a stabilire un principio di uniformità: secondo Palazzo Chigi e il ministero, solo una legge nazionale potrebbe legiferare in modo organico sul fine vita. Nel frattempo, sul fronte delle associazioni, l’Associazione Luca Coscioni – storica promotrice dei referendum sulla libertà di scelta – ha ribadito che, a suo avviso, l’ordinamento consente già l’applicazione della sentenza Cappato anche senza una legge regionale. Secondo la segretaria Filomena Gallo, «un malato non può attendere dai 6 mesi ai 2 anni per sapere se potrà porre fine alle sue sofferenze», e la sospensiva non fa altro che togliere tempi certi al servizio sanitario regionale.
Adesso tutti gli occhi sono puntati sull’udienza collegiale del TAR del 15 maggio. Sarà il primo importante appuntamento: se i giudici confermeranno la sospensiva e annulleranno le delibere regionali, il suicidio assistito in Emilia-Romagna resterà fermo a tempo indeterminato. In caso contrario, si aprirà il giudizio di merito sull’annullamento delle delibere. Qualunque sia l’esito, la decisione finale potrebbe essere impugnata al Consiglio di Stato, dove si discussero i ricorsi del governo contro leggi regionali (come avviene per altri provvedimenti amministrativi). Intanto sul piano politico la vicenda ha già suscitato dure reazioni. Da un lato il centrodestra esulta: il senatore Maurizio Gasparri (FI) ha definito l’iniziativa delle Regioni in materia «sconsiderata ed irresponsabile» e ha elogiato il TAR per aver «correttamente bloccato» decisioni che, a suo dire, erano «senza poteri» . Dall’altro il Partito Democratico critica chi frena l’iter parlamentare: il senatore Alfredo Bazoli (PD) ha attaccato il centrodestra definendolo «irresponsabile, ignavo e menefreghista» perché – a suo dire – impedisce da anni l’approvazione di una legge sul fine vita richiesta dalla Consulta . In sostanza, Bazoli ricorda che le regioni si stanno muovendo solo perché da sei anni il Parlamento non ha dato una risposta legislativa.
La vicenda solleva dunque domande cruciali sul futuro del diritto al fine vita in Italia. Il Parlamento riuscirà a superare gli steccati ideologici e a trovare un’intesa per una legge nazionale? Oppure la materia continuerà a dipendere da provvedimenti regionali e sentenze giudiziarie? E voi che ne pensate di questa sospensione? Ritenete giusto che una regione legiferi in autonomia su un tema così delicato? Fateci sapere la vostra opinione nei commenti.
Il disegno di legge (ddl) sicurezza S.1236, attualmente in discussione, contiene una disposizione che ha suscitato preoccupazione all’interno della comunità accademica italiana. L’articolo 31, comma 1, del ddl propone di estendere i poteri delle agenzie di intelligence alle università e agli enti pubblici di ricerca, introducendo obblighi di collaborazione e deroghe alla riservatezza.
Questa modifica mira a potenziare l’attività di informazione per la sicurezza, modificando l’articolo 13 della legge 3 agosto 2007, n. 124, che disciplina il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e il segreto di Stato. In particolare, la nuova disposizione prevede che le università e gli enti di ricerca siano tenuti a collaborare con i servizi di intelligence, fornendo informazioni e dati ritenuti utili per la sicurezza nazionale.
La comunità accademica esprime preoccupazione per le possibili implicazioni di questa norma. L’obbligo di collaborazione potrebbe compromettere l’autonomia delle istituzioni universitarie e la libertà di ricerca, principi fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana. Inoltre, le deroghe alla riservatezza potrebbero mettere a rischio la protezione dei dati sensibili di studenti e ricercatori, sollevando questioni etiche e legali.
Un altro aspetto critico riguarda la definizione dei confini di questa collaborazione. La mancanza di chiarezza sulle modalità operative e sui limiti dell’intervento dei servizi segreti nelle università potrebbe portare a interferenze indebite nelle attività accademiche e a una limitazione della libertà di espressione e di pensiero.
Le organizzazioni rappresentative del mondo accademico hanno manifestato il loro dissenso attraverso comunicati ufficiali e richieste di revisione della norma. Essi sottolineano l’importanza di mantenere un equilibrio tra le esigenze di sicurezza nazionale e la tutela dei diritti fondamentali legati all’istruzione e alla ricerca.
In risposta alle critiche, i promotori del ddl sicurezza sostengono che la collaborazione tra servizi di intelligence e istituzioni accademiche sia necessaria per prevenire minacce alla sicurezza nazionale, come il terrorismo e la proliferazione di tecnologie sensibili. Essi affermano che le misure proposte sono in linea con le pratiche adottate in altri paesi europei e che saranno implementate nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.
Tuttavia, gli oppositori della norma ritengono che sia fondamentale garantire trasparenza e proporzionalità nelle misure adottate, evitando che la sicurezza nazionale diventi un pretesto per limitare l’autonomia accademica e la libertà di ricerca. Essi chiedono un dibattito pubblico approfondito e l’adozione di salvaguardie adeguate per proteggere i valori fondamentali dell’istruzione superiore.
In conclusione, l’articolo 31, comma 1, del ddl sicurezza S.1236 solleva questioni complesse che richiedono un’attenta valutazione da parte del legislatore. È essenziale trovare un equilibrio tra le legittime esigenze di sicurezza nazionale e la tutela dell’autonomia e della libertà delle istituzioni accademiche, al fine di preservare i principi democratici e costituzionali su cui si fonda il sistema educativo italiano.
Il 1° gennaio 2025, Gazprom ha interrotto le forniture di gas naturale verso l’Europa attraverso l’Ucraina. Questo sviluppo è avvenuto alla scadenza degli accordi di transito quinquennali firmati nel 2020, con Gazprom che ha attribuito la decisione al rifiuto di Kiev di estenderli.
Le relazioni energetiche tra Russia e Ucraina sono state storicamente complesse, con l’Ucraina che ha svolto un ruolo cruciale come paese di transito per il gas russo destinato all’Europa. Tuttavia, l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 e il conflitto iniziato nel 2022 hanno ulteriormente deteriorato queste relazioni. La scadenza degli accordi di transito e il mancato rinnovo rappresentano l’epilogo di una decade di tensioni crescenti.
L’interruzione del transito del gas russo attraverso l’Ucraina ha implicazioni diverse per i paesi europei. Mentre molte nazioni hanno ridotto la loro dipendenza dal gas russo, paesi come Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca rimangono significativamente dipendenti. Questi paesi potrebbero affrontare aumenti dei costi energetici e disagi per i consumatori.
La Commissione Europea ha dichiarato di essere preparata a gestire l’interruzione, avendo potenziato le capacità di importazione di gas naturale liquefatto e diversificato le fonti di approvvigionamento. Nonostante ciò, l’aumento del prezzo del gas, che ha superato i 50 euro per megawattora per la prima volta dall’ottobre 2023, riflette le preoccupazioni del mercato riguardo alla stabilità dell’approvvigionamento energetico.
L’interruzione del transito comporta significative perdite economiche per entrambe le nazioni. L’Ucraina potrebbe perdere circa 800 milioni di dollari all’anno in tariffe di transito, mentre Gazprom potrebbe subire una riduzione di circa 5 miliardi di dollari nelle vendite di gas. Questa situazione aggrava le difficoltà economiche di Gazprom, che ha registrato perdite superiori a 7 miliardi di dollari nell’ultimo anno, le prime dal 1999.
In un periodo di forti sfide per il sistema sanitario italiano, il Ministro della Salute Orazio Schillaci ha delineato, in un’intervista a Repubblica, un ambizioso piano di assunzioni per arginare la grave mancanza di personale. Il progetto prevede l’ingresso di 10.000 infermieri dall’India per colmare le lacune attuali negli ospedali italiani. In un contesto dove, secondo i dati, mancano circa 30.000 infermieri, Schillaci punta a rafforzare l’organico per ridurre le difficoltà operative e migliorare le condizioni di lavoro del personale sanitario già presente.
Durante il recente G7 della Salute, Schillaci ha discusso con la viceministra indiana le modalità di questo piano. L’India, con una disponibilità di ben 3,3 milioni di infermieri, rappresenta un bacino di risorse che potrebbe tamponare la carenza italiana. Secondo il piano del Ministro, le Regioni italiane avranno la possibilità di reclutare questi professionisti direttamente, con la Campania come prima regione già attiva per portarli nei reparti. “Noi faremo da tramite,” spiega Schillaci, riferendosi al ruolo del Ministero per verificare la conoscenza della lingua italiana e collaborare con le autorità consolari per una selezione efficace.
L’introduzione degli infermieri indiani è vista come una soluzione temporanea per rispondere a un’emergenza che, secondo Schillaci, richiede interventi anche sul fronte salariale. Gli infermieri in Italia sono infatti tra i meno pagati in Europa, un problema che il Ministero intende affrontare con una rivalutazione degli stipendi e l’introduzione di nuove mansioni per rendere più attrattiva la professione.
Il progetto per l’assunzione degli infermieri non partirà immediatamente. Come ha sottolineato Schillaci, le Regioni devono ancora presentare un piano triennale di assunzioni che definisca le risorse necessarie, un passo richiesto dal decreto sulle liste di attesa. Proprio queste ultime rappresentano una delle principali criticità per il Ministro, che sollecita le Regioni a utilizzare i fondi già stanziati: ben 200 milioni di euro sono ancora inutilizzati. Schillaci ha annunciato premi per quelle Regioni che riusciranno a ottenere risultati tangibili nella riduzione delle attese, dato che, come evidenziato anche da Cittadinanzattiva, l’impossibilità di accedere rapidamente alle cure spinge i cittadini verso il privato, creando una disparità tra chi può permetterselo e chi no.
Per garantire a tutti un accesso più equo alle prestazioni sanitarie, Schillaci ha proposto di aumentare il tetto di spesa per i privati convenzionati, un modo per ampliare l’offerta gratuita anche nei centri privati, soprattutto a favore delle persone con minori disponibilità economiche.
La crescita della spesa farmaceutica in Italia è un altro problema che grava sul sistema sanitario. Con un aumento annuo di 3 miliardi, soprattutto per l’acquisto di nuovi farmaci ad alto costo per il trattamento di malattie gravi, la sostenibilità del sistema universale diventa sempre più a rischio. Schillaci, tuttavia, difende con forza il modello pubblico e universale, dichiarando di non voler “privatizzare niente” e di voler mantenere l’articolo 32 della Costituzione come cardine del sistema.
Secondo il Ministro, per mantenere l’accesso gratuito ai nuovi farmaci senza sovraccaricare il bilancio pubblico, è essenziale investire di più nella prevenzione. L’obiettivo è ridurre il numero di persone che sviluppano patologie evitabili, in modo da alleggerire la pressione sul sistema sanitario e preservarne la gratuità. “Dobbiamo fare un patto sulla salute,” afferma Schillaci, “mettendo al centro la prevenzione”.
La maternità surrogata è un tema che infiamma il dibattito italiano da anni. Vietata dal 2004, la pratica è al centro di nuove polemiche in seguito all’approvazione del disegno di legge Varchi, che introduce il reato universale per chi ricorre alla gestazione per altri (GPA), anche all’estero. Questa legge, già considerata controversa, ha portato a una riflessione profonda sulle implicazioni etiche, legali e sociali della maternità surrogata.
In Italia, la maternità surrogata è vietata dalla Legge 40 del 19 febbraio 2004, che stabilisce sanzioni severe, con pene fino a due anni di reclusione e multe fino a un milione di euro. Il recente disegno di legge rende questa pratica un reato universale, punibile anche per chi si reca in Paesi dove la surrogazione è legale. Oltre al carcere, sono previste sanzioni pecuniarie significative.
Ma cosa significa esattamente reato universale? In sostanza, una coppia italiana che si avvale della maternità surrogata all’estero, anche in Paesi dove è legale come Stati Uniti, Canada o Ucraina, rischia di essere perseguita penalmente al ritorno in Italia. Questo estende di fatto il divieto a livello internazionale, sollevando molteplici questioni giuridiche e pratiche, soprattutto in relazione alla cooperazione tra Stati.
Esistono due forme di maternità surrogata: altruistica e retribuita. La prima non prevede compensi economici per la gestante, mentre nella seconda è previsto un pagamento. In molti Paesi, come Gran Bretagna e Canada, è legale solo la versione altruistica, mentre negli Stati Uniti è possibile anche la surrogazione retribuita. La legge italiana, tuttavia, vieta entrambe le forme.
Con l’approvazione della legge Varchi, circa 30 coppie italiane hanno già manifestato l’intenzione di ricorrere legalmente. Molte di queste sono donne che hanno superato il cancro e che hanno congelato i propri ovuli, o che soffrono di patologie che impediscono loro di portare avanti una gravidanza. Il divieto universale di GPA, infatti, colpisce duramente queste famiglie, spesso formate da giovani coppie eterosessuali e omosessuali, che vedono nella maternità surrogata l’unica possibilità per avere figli.
La segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, sostiene che la legge sia difficilmente applicabile, interrogandosi su come verranno identificate le coppie che ricorrono alla GPA all’estero. Le sue preoccupazioni si concentrano su questioni legali come l’acquisizione di prove e la cooperazione tra Stati. Inoltre, sottolinea che la legge potrebbe mettere a rischio la tutela dei bambini nati da GPA, creando un clima di incertezza e paura tra le famiglie.
Le critiche alla legge Varchi non si fermano agli aspetti tecnici. Alessia Crocini, presidente delle Famiglie Arcobaleno, ritiene che la legge sia finalizzata a scoraggiare la genitorialità omosessuale, in particolare quella maschile. Crocini esprime timori riguardo al clima di terrore che la legge potrebbe generare nei bambini nati da maternità surrogata, alcuni dei quali già abbastanza grandi per capire il dibattito mediatico.
Il New York Times ha dedicato spazio alla questione, evidenziando come la legge italiana criminalizzi una pratica legale in molti altri Paesi. Secondo il quotidiano americano, questa decisione rifletterebbe l’intenzione del governo conservatore di proteggere la dignità delle donne, ma i critici la vedono come l’ennesimo attacco alla comunità LGBT.
L'Unione Europea ha approvato l'introduzione di dazi aggiuntivi sulle auto elettriche cinesi, in risposta ai massicci sussidi considerati sleali concessi da Pechino. Questa decisione è stata presa con una maggioranza qualificata, con dieci Paesi che hanno votato a favore, cinque contrari e dodici astenuti.
Dieci Paesi, tra cui Italia e Francia, hanno votato a favore dei dazi aggiuntivi, che possono arrivare fino al 36,3%. Tra i contrari, la Germania ha guidato la fazione opposta, mentre dodici Paesi, tra cui Spagna e Belgio, si sono astenuti. La decisione ha suscitato reazioni contrastanti: da una parte, chi sostiene che i dazi siano necessari per proteggere l'industria automobilistica europea, dall'altra, chi teme che possano portare a rincari per i consumatori e ritorsioni commerciali da parte della Cina.
L'aumento dei dazi potrebbe avere un impatto significativo sui prezzi delle auto elettriche cinesi, che fino ad ora erano tra le più economiche sul mercato europeo.
Questo potrebbe rendere più difficile per i consumatori europei accedere a veicoli elettrici a buon prezzo, influenzando negativamente la transizione verso l'energia pulita.
Nonostante l'approvazione dei dazi, le trattative per cercare soluzioni alternative sono ancora in corso. Bruxelles ritiene che un accordo sia possibile e sta lavorando per trovare un compromesso che possa soddisfare tutte le parti coinvolte.
La situazione è fluida e le prossime mosse saranno cruciali per determinare l'evoluzione di questo conflitto commerciale.
Il dibattito sui dazi sulle auto elettriche cinesi riflette una più ampia tensione tra l'Unione Europea e la Cina riguardo alla concorrenza sleale e alla protezione delle industrie locali. La decisione dell'UE è vista come un passo verso la protezione delle industrie automobilistiche europee, ma ha anche sollevato preoccupazioni riguardo alle possibili ripercussioni economiche e politiche.
Antonio Tajani, ministro degli Esteri e Segretario di Forza Italia, ha annunciato una proposta di legge che mira a riformare la cittadinanza, nominata “Ius Italiae”. Questa proposta nasce come evoluzione del dibattito sullo “Ius Scholae”, ma con un nome che riflette l’intenzione di collegare maggiormente il concetto di cittadinanza alla cultura e all’identità italiane. L’obiettivo è quello di integrare pienamente i figli degli immigrati regolari, garantendo loro la cittadinanza.
Nel testo della proposta viene indicato “che lo straniero nato in Italia o lo straniero che arriva in Italia entro il compimento del quinto anno di età, che risiede ininterrottamente per dieci anni in Italia e frequenta e supera le classi della scuola dell'obbligo, 5 anni elementari, 3 anni di medie, 2 di superiori, può ottenere la cittadinanza italiana, a 16 anni".
Lo Ius Italiae prevede anche una riduzione dei tempi di attesa, dagli attuali 3 anni (prorogabili fino a 36 mesi) a un anno (prorogabile per 6 mesi).
La proposta rappresenta “un’evoluzione” dello “Ius Scholae”, un concetto che prevede la concessione della cittadinanza italiana a coloro che hanno concluso con successo un ciclo di almeno cinque anni di studi in Italia. Questo principio, sostenuto in precedenza anche dal Movimento 5 Stelle e da altri partiti progressisti, è visto come un passo verso una maggiore inclusione dei giovani nati da famiglie immigrate. Tuttavia, la sua applicazione ha sempre trovato opposizione da parte di alcune forze politiche, tra cui la Lega e Fratelli d’Italia, che considerano il provvedimento troppo permissivo.
Tajani ha voluto distanziarsi dalla retorica classica del centrodestra e, pur rifiutando lo “Ius Soli”, ha indicato che una forma di cittadinanza legata a criteri come l’istruzione può essere uno strumento di integrazione efficace. Ha sottolineato che il completamento degli studi, abbinato all’acquisizione dei valori italiani, rappresenta un approccio più rigoroso rispetto a quanto proposto in passato. Il nome “Ius Italiae” evidenzia, infatti, un’attenzione specifica alla cultura italiana, sottolineando che essere cittadini non è solo una questione di luogo di nascita o residenza, ma anche di assimilazione dei valori e delle tradizioni del Paese.
Nonostante il sostegno di Forza Italia alla proposta, non tutti i partiti della maggioranza sono allineati. Fratelli d’Italia e Lega hanno espresso forti riserve, con il segretario della Lega, Matteo Salvini, che ha ribadito la sua contrarietà a qualsiasi riforma che allarghi le maglie della cittadinanza. Secondo Salvini, l’approccio attuale, che richiede la residenza continuativa per dieci anni prima di poter richiedere la cittadinanza, è già sufficientemente inclusivo e non necessita di ulteriori modifiche. Tuttavia, Tajani ritiene che una legge come lo “Ius Italiae” possa rappresentare un compromesso tra l’inclusione e la protezione dell’identità italiana, facendo appello ai migranti regolari e ai rifugiati, come gli ucraini, che si sono stabiliti nel Paese.
Il 27 settembre, il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto legge che rappresenta un passo fondamentale nella lotta contro le aggressioni ai danni degli operatori sanitari. Questa nuova norma, intitolata “Misure urgenti per contrastare i fenomeni di violenza nei confronti dei professionisti sanitari”, introduce una serie di misure concrete per affrontare questo fenomeno in crescita. Il decreto è stato fortemente voluto dal Ministro della Salute, Orazio Schillaci, in risposta a un contesto in cui la violenza nei confronti di medici, infermieri e altri operatori sanitari è diventata una realtà quotidiana, soprattutto in alcune strutture ospedaliere ad alta intensità di lavoro come i pronto soccorso.
Una delle innovazioni più rilevanti del decreto è l'introduzione dell'arresto obbligatorio in flagranza per chiunque commetta atti di violenza fisica nei confronti di medici, infermieri e altri professionisti sanitari. In particolare, il decreto modifica gli articoli del codice di procedura penale, aggiungendo nuove disposizioni che estendono l'arresto obbligatorio in flagranza anche ai reati di violenza che causano lesioni personali a membri del personale sanitario. La norma si applica anche ai danni provocati ai beni destinati all’assistenza sanitaria, come attrezzature mediche e strutture ospedaliere. La pena per chi compie tali reati può arrivare fino a cinque anni di reclusione, con una multa che può toccare i 10.000 euro. Questo inasprimento delle pene è un segnale forte di condanna verso chi cerca di minare la sicurezza e l'efficienza del sistema sanitario nazionale.
Un altro aspetto significativo riguarda l'arresto in flagranza differita, una misura che consente di arrestare un aggressore anche nelle 48 ore successive al reato, qualora l'atto criminale sia stato documentato, ad esempio, da video o altre prove fotografiche. Questo strumento si è dimostrato particolarmente utile in situazioni in cui la violenza non viene immediatamente percepita dalle forze dell'ordine, ma è comunque documentata da videocamere di sicurezza o telefonini dei testimoni. L'idea alla base di questa norma è rendere più difficile per i colpevoli sfuggire alla giustizia, favorendo una risposta rapida e tempestiva da parte delle autorità.
La violenza contro i professionisti sanitari è un problema che affligge molte nazioni, ma in Italia ha assunto proporzioni allarmanti negli ultimi anni. Le aggressioni fisiche, verbali e i danneggiamenti delle strutture sanitarie sono diventati eventi frequenti, in particolare nei pronto soccorso, dove la pressione sui medici e il malcontento dei pazienti possono sfociare in comportamenti violenti. Secondo un rapporto della FNOMCeO del 2019, un medico su due ha subito aggressioni, con una prevalenza di aggressioni verbali rispetto a quelle fisiche. Inoltre, tra il 2016 e il 2020, ci sono stati circa 12.000 infortuni sul lavoro per il personale sanitario legati a violenze, aggressioni e minacce.
Il decreto risponde a questa esigenza di sicurezza, ma non si limita a sanzionare i comportamenti violenti. Il Ministro Schillaci ha dichiarato che, oltre alle modifiche legislative, il governo intende lavorare anche sul piano culturale, attraverso campagne di sensibilizzazione per promuovere il rispetto verso gli operatori sanitari e per migliorare la relazione tra pazienti e personale medico.
Anche a livello internazionale, il tema delle aggressioni agli operatori sanitari è una preoccupazione crescente. Paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti e molti altri stati europei hanno adottato leggi simili per proteggere i propri sanitari da violenze e intimidazioni. Negli Stati Uniti, per esempio, la “Safety from Violence for Healthcare Employees (SAVE) Act” ha introdotto pene più severe per chi aggredisce il personale sanitario, mentre in Gran Bretagna è stata rafforzata la protezione legale per gli operatori in ambito ospedaliero. Tuttavia, come sottolineano gli esperti, la soluzione non è solo legislativa: è necessario un cambiamento culturale che riduca la frustrazione e il disprezzo nei confronti delle istituzioni sanitarie.
Nonostante le misure contenute nel decreto siano sicuramente un passo in avanti, molti esperti e rappresentanti delle categorie professionali sottolineano che il contrasto alle aggressioni deve andare oltre la semplice reazione agli episodi violenti. La sicurezza negli ospedali deve essere garantita anche attraverso un miglioramento delle condizioni di lavoro degli operatori sanitari, un’adeguata protezione psicologica e un’efficace gestione delle risorse umane. Il personale sanitario, infatti, spesso si trova a dover fronteggiare situazioni di stress estremo, che possono aumentare il rischio di conflitti con i pazienti.
Il 25 settembre, con 154 voti favorevoli, 97 contrari e 7 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il ddl sul voto in condotta, promosso dal ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara. Questo provvedimento introduce importanti novità riguardanti la valutazione del comportamento degli studenti, con l’obiettivo dichiarato di responsabilizzarli e ripristinare il rispetto nelle aule scolastiche.
Il disegno di legge prevede che il voto in condotta, espresso numericamente, avrà un peso determinante sia alle scuole medie che superiori. Se uno studente otterrà il 5 in condotta, potrà essere bocciato. Alle scuole elementari, invece, la valutazione del comportamento sarà espressa con giudizi sintetici.
Per quanto riguarda le scuole superiori, gli studenti che ottengono un 6 in condotta dovranno affrontare un debito formativo, sostenendo un elaborato di educazione civica. Inoltre, il voto in condotta influenzerà l'assegnazione del credito scolastico, il cui punteggio sarà massimo solo per chi otterrà almeno un 9.
Il provvedimento non si limita alla valutazione numerica del comportamento. Sono previste anche sanzioni per comportamenti gravi, come le aggressioni al personale scolastico. In questi casi, gli studenti dovranno pagare delle multe o svolgere attività di cittadinanza solidale. Il sistema delle sospensioni subirà delle modifiche: invece di penalizzare gli studenti con giorni di assenza, essi saranno coinvolti in attività educative, con l'intento di garantire "più scuola, non meno scuola".
Il ddl Valditara ha suscitato un acceso dibattito politico. Le opposizioni, rappresentate in particolare da PD, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, si sono schierate contro la legge, criticandola duramente. Il deputato del M5S Gaetano Amato ritiene che il provvedimento sia “inutile” e ha accusato Valditara di volere degli “studenti non pensanti”.
Al contrario, Lega e Fratelli d’Italia hanno sostenuto con forza la riforma, vedendo in essa uno strumento efficace per contrastare fenomeni come le occupazioni e gli atti di vandalismo nelle scuole.
Giuseppe Valditara ha accolto con soddisfazione l'approvazione del ddl, sottolineando come la nuova legge rappresenti un passo avanti verso una scuola che responsabilizza gli studenti e valorizza il ruolo dei docenti. "Il comportamento degli studenti peserà sulla loro valutazione complessiva e sull’ammissione agli esami di Stato", ha spiegato il ministro, evidenziando come la riforma voglia instillare un senso di dovere verso la comunità scolastica e il rispetto delle regole.
Il ddl sul voto in condotta ha diviso la politica e l’opinione pubblica. Da un lato, c’è chi vede in questa legge un modo per recuperare l'autorevolezza della scuola e migliorare il comportamento degli studenti; dall'altro, c’è chi teme che possa inasprire ulteriormente il contesto educativo. Sarà interessante osservare come questa riforma influirà concretamente sulla vita scolastica e se raggiungerà gli obiettivi dichiarati dal governo.
Negli ultimi anni, il tema della castrazione chimica ha guadagnato un'attenzione crescente in Italia, soprattutto a seguito della proposta rilanciata dalla Lega di Matteo Salvini. La castrazione chimica, infatti, è stata spesso presentata come un possibile strumento per affrontare la recidiva nei reati sessuali, in particolare quelli contro donne e minori. Ma cosa prevede esattamente questa misura?
La castrazione chimica è un trattamento farmacologico che riduce il desiderio sessuale agendo sui livelli di testosterone e inibendo gli impulsi sessuali. Viene effettuata tramite farmaci come gli anti-gonadotropinici o gli anti-androgeni, che abbassano la produzione di ormoni responsabili della libido. Non è una misura permanente e i suoi effetti cessano con l'interruzione della terapia, ma può avere anche effetti collaterali significativi come osteoporosi, diabete e aumento del rischio di infarti.
A differenza della castrazione chirurgica, che prevede l’asportazione delle gonadi, la castrazione chimica è considerata una forma meno invasiva e teoricamente reversibile. Tuttavia, il dibattito verte non solo sui suoi effetti fisici, ma anche sulle implicazioni etiche e legali.
La proposta di introdurre la castrazione chimica in Italia ha preso forza dopo alcuni gravi episodi di violenza sessuale, come quello avvenuto a Palermo nel 2023. In diverse occasioni, Matteo Salvini ha ribadito la sua posizione a favore di questa misura, definendola "un passo avanti verso la civiltà e la sicurezza" e sottolineando che i "malati", ossia gli autori di tali crimini, dovrebbero essere "curati" oltre che puniti.
La Lega, attraverso il deputato Igor Iezzi, ha spinto per l'apertura di un tavolo tecnico al fine di valutare la possibilità di offrire questo trattamento farmacologico in modo volontario ai condannati per reati sessuali, con l’obiettivo di ridurre la recidiva.
La castrazione chimica è già in uso in diversi Paesi, tra cui Germania, Francia, Regno Unito, Belgio e alcuni Stati degli USA dove viene offerta in modo volontario ai condannati per reati sessuali. Tuttavia, solo in Polonia e Russia esistono leggi che permettono di imporre questo trattamento senza il consenso del detenuto.
Nonostante il sostegno di Salvini e della Lega, la proposta ha incontrato una forte opposizione da parte di diverse forze politiche e organizzazioni per i diritti umani. Esponenti del Partito Democratico e di Italia Viva hanno criticato la misura definendola incostituzionale e contraria ai principi fondamentali della giustizia. Laura Boldrini, deputata del PD, ha sottolineato che la violenza sessuale è un problema legato alla “sopraffazione e al dominio” e non alla pulsione sessuale, rendendo quindi la castrazione chimica una soluzione inadeguata.
Anche alcune voci all'interno della comunità medica hanno espresso preoccupazioni, evidenziando i potenziali rischi per la salute dei soggetti sottoposti a questo trattamento e la complessità del problema della violenza sessuale, che non può essere ridotto a una questione ormonale.
Il tema della castrazione chimica tocca questioni delicate, che spaziano dalla tutela della sicurezza pubblica alla protezione dei diritti umani. Le preoccupazioni riguardano non solo la costituzionalità di una misura di questo tipo, ma anche il rispetto della dignità delle persone condannate. Alcuni esperti legali e costituzionalisti hanno sottolineato che l'imposizione di trattamenti farmacologici, anche su base volontaria, potrebbe rappresentare una violazione dell'integrità fisica e psichica dei detenuti.
Il dibattito continua, con sostenitori e oppositori fermi sulle loro posizioni. Mentre per la Lega e Salvini questa proposta rappresenta una "soluzione di buonsenso" contro crimini efferati, per altri si tratta di una misura inadeguata e potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali degli individui.
La Svezia, riconosciuta a livello mondiale come un modello di welfare e accoglienza, ha recentemente introdotto una misura che ha suscitato un grande dibattito: un incentivo di 34.000 dollari destinato ai migranti che decidono di lasciare il Paese volontariamente. Il governo, sostenuto dai Democratici Svedesi, partito con posizioni fortemente contrarie all'immigrazione, ha annunciato che il provvedimento entrerà in vigore a partire dal 2026.
Questa decisione si inserisce in un quadro più ampio di revisione delle politiche migratorie svedesi, che negli ultimi anni si sono progressivamente inasprite. Nonostante la Svezia sia stata per lungo tempo una delle principali destinazioni europee per i rifugiati e i migranti, il Paese ha incontrato numerose difficoltà nel processo di integrazione, specialmente per coloro che si trovano ai margini del mercato del lavoro. A tal proposito, Johan Forssell, Ministro delle Migrazioni, ha dichiarato che il Paese è "nel mezzo di un cambiamento di paradigma".
Il programma di incentivi, sebbene esista sin dal 1984, era poco conosciuto e offriva somme modeste rispetto alle attuali. In precedenza, un adulto poteva ricevere circa 10.000 corone svedesi (circa 870 euro) per lasciare il Paese, una cifra insufficiente a stimolare rimpatri volontari su larga scala.
Il nuovo piano, molto più generoso, prevede fino a 350.000 corone svedesi (34.000 dollari) per ogni migrante che decide di tornare nel proprio Paese di origine. L'obiettivo dichiarato è quello di ridurre la pressione sul welfare svedese, soprattutto per i migranti che non sono riusciti a integrarsi nel mercato del lavoro e che dipendono dai sussidi statali.
Secondo le stime del governo, vi sono diverse centinaia di migliaia di migranti in Svezia in condizioni di disoccupazione o con redditi molto bassi. Questo segmento della popolazione è quello a cui si rivolge maggiormente la nuova politica. Ludvig Aspling, rappresentante dei Democratici Svedesi, ha spiegato che questa misura potrebbe finalmente avere successo se pubblicizzata in maniera adeguata, favorendo così un numero più consistente di migranti che accettano l'incentivo.
La Svezia non è l'unico Paese europeo ad aver adottato politiche di rimpatrio volontario. Tuttavia, l'importo promesso dal governo svedese è di gran lunga superiore rispetto a quello offerto da altre nazioni. Ad esempio, la Danimarca prevede un incentivo di circa 15.000 dollari per i migranti che scelgono di lasciare il Paese, mentre Norvegia, Francia e Germania offrono cifre decisamente più basse, tra i 1.400 e i 2.800 dollari.
Questa disparità fa sì che la Svezia si posizioni come uno dei Paesi europei più determinati a incentivare i rimpatri volontari, nel tentativo di arginare le difficoltà legate all'immigrazione non gestita.
La proposta del governo svedese ha suscitato reazioni contrastanti. Da un lato, i sostenitori della misura ritengono che essa rappresenti una soluzione pragmatica per ridurre la pressione sulle risorse pubbliche, favorendo al contempo un'uscita dignitosa per quei migranti che non sono riusciti a integrarsi. Dall'altro lato, i critici temono che questa politica possa inviare un messaggio negativo, implicando che i migranti non siano più benvenuti in Svezia e scoraggiando ulteriori richieste di asilo.
Alcuni esperti sottolineano che la misura potrebbe peggiorare la percezione della Svezia come Paese accogliente e inclusivo, minando decenni di sforzi verso l'integrazione multiculturale. Joakim Ruist, un economista specializzato in migrazione, ha commentato che un incentivo così alto potrebbe dare l'idea che i migranti siano un peso economico per il Paese, contribuendo a una narrazione xenofoba già presente in molte aree d'Europa.
Se la misura avrà successo nel ridurre la popolazione migrante disoccupata, potrebbe essere adottata da altri Paesi europei, specialmente quelli che, come la Svezia, stanno affrontando problemi di integrazione e di pressione sui servizi sociali. Tuttavia, resta da vedere se l'incentivo sarà sufficiente per convincere un numero significativo di migranti a tornare nei propri Paesi di origine, considerando che molti di loro hanno lasciato condizioni economiche e politiche estremamente difficili.
Il 13 settembre, la Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera ha approvato una mozione presentata dalla Lega, con il sostegno di tutta la maggioranza di destra, che ha scatenato un intenso dibattito. Il testo, che ha visto come primo firmatario il deputato leghista Rossano Sasso, vieta qualsiasi iniziativa nelle scuole che possa essere ricondotta alla cosiddetta "ideologia gender" e, tra le altre cose, esclude la presenza di drag queen all'interno degli istituti scolastici, dichiarando che queste figure non dovrebbero avere accesso alle classi per "indottrinare" i bambini su questioni relative al genere.
Secondo Rossano Sasso, la mozione è un passo necessario per proteggere i bambini dalla "deriva ideologica" e dalla "iper-sessualizzazione", termini usati per indicare l'influenza che, secondo la Lega, certe tematiche di genere potrebbero avere sui giovani alunni. Sasso ha ribadito l'opposizione all'utilizzo di fondi europei per progetti come l'Erasmus DragTivism Jr., che, secondo la Lega, sarebbero strumenti per diffondere la "pericolosa ideologia woke". La mozione impegna inoltre il governo a rivedere tutte le iniziative che potrebbero essere considerate forme di propaganda nelle scuole, ribadendo la centralità delle famiglie nel processo educativo.
La reazione dell'opposizione è stata immediata e fortemente critica. Alessandro Zan, responsabile diritti del Partito Democratico, ha accusato la maggioranza di portare avanti una "crociata ideologica" contro i diritti delle persone LGBTQIA+, paragonando l’Italia a Paesi come Ungheria e Bulgaria, dove politiche simili hanno avuto effetti deleteri sulla comunità LGBTQIA+. Le opposizioni hanno inoltre evidenziato come la destra stia ignorando problemi ben più urgenti, come i salari e le lista d’attesa, per concentrarsi su battaglie che considerano frutto di pregiudizi.
Questa mozione si inserisce in un contesto più ampio di polarizzazione politica su temi di diritti civili e sessualità nelle scuole. In particolare, il tema dell'educazione al genere e all'affettività è da tempo oggetto di discussione in Italia, con forti contrapposizioni tra chi sostiene la necessità di un'educazione inclusiva e chi, come la Lega, teme che si tratti di una forma di propaganda ideologica. Il riferimento alle drag queen, una figura legata alla cultura LGBTQIA+, è diventato il simbolo della battaglia culturale condotta dalla destra contro quella che viene definita una "iper-sessualizzazione" dei bambini.
Dopo oltre tre anni di chiusura forzata a causa della pandemia di COVID-19, la Corea del Nord ha annunciato la riapertura delle sue frontiere al turismo internazionale. Questo evento, atteso da molti viaggiatori curiosi di scoprire uno dei Paesi più isolati e misteriosi al mondo, porta con sé una serie di regole e restrizioni che riflettono il rigido controllo del regime di Kim Jong-un. I visitatori devono essere consapevoli che il turismo in Corea del Nord è soggetto a una regolamentazione severa e che ogni comportamento ritenuto fuori luogo potrebbe avere conseguenze gravi.
La Corea del Nord è nota per l’inasprimento delle sue regole ideologiche e per il tentativo continuo di limitare l’influenza occidentale sui propri cittadini. Uno dei simboli più chiari di questo rifiuto culturale è il divieto di indossare jeans, considerati un simbolo dell’influenza americana. Questo capo d’abbigliamento è associato alla decadenza capitalista e al consumismo occidentale, ed è pertanto vietato nel Paese. Indossare jeans, specialmente quelli di colore blu, può essere interpretato come un atto di ribellione contro l’autorità del regime e le sue norme, mettendo in difficoltà sia i cittadini che i turisti.
Oltre ai jeans, anche il taglio di capelli è soggetto a stretta regolamentazione. Le autorità nordcoreane hanno approvato una lista di stili di acconciatura consentiti, tutti rigorosamente semplici e modesti. Questo fa parte di un più ampio progetto del regime per uniformare l’aspetto della popolazione e impedire l’adozione di mode o tendenze percepite come provenienti dall’Occidente.
Se da un lato la Corea del Nord vieta i simboli dell’occidentalismo, dall’altro è altrettanto intransigente sul piano della religione. La Bibbia, insieme a qualsiasi altro testo religioso, è vietata in Corea del Nord. Il regime di Kim Jong-un, infatti, promuove un ateismo di Stato e la pratica religiosa, se scoperta, è punita severamente. Possedere o distribuire una Bibbia in Nord Corea è considerato un crimine estremamente grave, che può portare a pene detentive molto lunghe o, in casi estremi, anche alla pena di morte. Anche i turisti devono rispettare queste regole, poiché qualsiasi oggetto che richiami una religione può essere visto come un tentativo di propaganda o proselitismo, attività completamente vietate.
L’ateismo forzato è una delle caratteristiche chiave del regime nordcoreano, che ha sostituito la religione con il culto della personalità attorno ai leader della dinastia Kim. Questo aspetto è evidente in molte delle restrizioni imposte ai turisti, che devono prestare grande attenzione alle immagini e alle rappresentazioni di Kim Jong-un e dei suoi predecessori.
In netto contrasto con il rigido controllo su abbigliamento e religione, sorprendentemente, la marijuana è legale in Corea del Nord. Questa sostanza non è vista come una droga pericolosa, bensì come un’alternativa al tabacco. I cittadini nordcoreani, soprattutto quelli di ceto medio-basso, utilizzano comunemente la marijuana, poiché è più economica rispetto alle sigarette tradizionali. È legale fumarla e non ci sono leggi che ne limitino il consumo o la coltivazione.
Questo elemento crea una curiosa contraddizione nel sistema legislativo nordcoreano. Mentre si reprimono abitudini considerate comuni in Occidente, come indossare jeans o possedere una Bibbia, la marijuana, spesso stigmatizzata altrove, è tranquillamente tollerata. Tuttavia, nonostante la sua legalità, bisogna sempre fare attenzione a non commettere atti irrispettosi nei confronti del regime, come, ad esempio, utilizzare carta con immagini dei leader per confezionare le sigarette di marijuana.
Un’altra delle regole più importanti da rispettare riguarda il trattamento riservato alle immagini del leader Kim Jong-un e dei suoi predecessori, Kim Jong-il e Kim Il-sung. In Corea del Nord, il culto della personalità dei leader è estremamente diffuso e ogni forma di irriverenza verso le immagini del regime può essere punita severamente. Ai turisti viene chiesto di non toccare, modificare o trattare in modo improprio le immagini di Kim Jong-un, presenti ovunque nel Paese, dalle strade alle case private.
È vietato, ad esempio, scattare fotografie alle statue dei leader da angolazioni che non siano considerate rispettose, e ogni forma di satira o critica nei confronti del regime è assolutamente vietata. Anche toccare per sbaglio un ritratto del leader con il gomito può essere interpretato come un gesto irrispettoso, capace di attirare l’attenzione delle autorità locali.
Il turismo in Corea del Nord è severamente regolato e sorvegliato. I visitatori stranieri devono sempre essere accompagnati da una guida autorizzata dal governo, e ogni spostamento è monitorato attentamente. I turisti non possono interagire liberamente con la popolazione locale e devono seguire itinerari prestabiliti, che li portano a visitare esclusivamente i luoghi designati dal regime. Fotografare o filmare qualsiasi cosa che non sia stata approvata dalle autorità può comportare l’immediata espulsione dal Paese, o addirittura l’arresto.
Nonostante queste rigide restrizioni, la Corea del Nord resta una destinazione ambita per coloro che vogliono scoprire un Paese che sembra essersi fermato nel tempo. La curiosità di vedere con i propri occhi la realtà di una delle dittature più isolate al mondo continua a spingere centinaia di turisti a varcare le frontiere ogni anno.
Chiunque decida di visitare la Corea del Nord deve rispettare queste norme, non solo per evitare problemi legali, ma anche per comprendere il contesto di un Paese in cui ogni aspetto della vita è strettamente regolato dal potere centrale.
Il Financial Times ha rivelato documenti segreti che mostrano come la Russia abbia preparato la sua Marina per attacchi nucleari contro obiettivi in Europa. Questi documenti, risalenti al periodo 2008-2014, offrono uno sguardo inquietante sui piani militari di Mosca e sulle sue intenzioni strategiche prima dell’invasione dell’Ucraina nel 2022.
I documenti, visionati dal Financial Times, mostrano che la Russia aveva identificato 32 obiettivi in Europa, tra cui la costa occidentale della Francia e Barrow-in-Furness nel Regno Unito. Questi piani dettagliati includevano l’uso di missili a testata nucleare per colpire obiettivi strategici e militari in tutta Europa. Le mappe “create a scopo espositivo” illustrano come la Russia immaginava un conflitto con l’Occidente che si estendesse ben oltre la sua immediata frontiera NATO.
Secondo i documenti, la Marina russa si era preparata a colpire l’Europa con missili nucleari in un potenziale conflitto con la NATO. Questi preparativi includevano l’addestramento dei soldati e la simulazione di attacchi con armi nucleari tattiche nelle prime fasi di un conflitto con una grande potenza mondiale. Gli esperti che hanno esaminato i file hanno confermato la coerenza nella valutazione della minaccia nei confronti della NATO, sottolineando che la capacità della Russia di colpire in tutta Europa implica che obiettivi in tutto il continente sarebbero a rischio.
Le rivelazioni del Financial Times evidenziano come la Russia abbia mantenuto la capacità di trasportare armi nucleari tattiche su navi di superficie, inclusi missili antisommergibile con testate nucleari installati su navi di superficie e sottomarini. Questo elemento comporta rischi significativi di escalation o incidenti che potrebbero avere risvolti drammatici. Inoltre, i documenti mostrano che la Russia aveva pianificato attacchi dimostrativi, come l’esplosione di una bomba in un’area remota prima di un conflitto effettivo, per spaventare i Paesi occidentali.
La comunità internazionale ha reagito con preoccupazione a queste rivelazioni. Gli esperti militari sottolineano che l’uso di armi nucleari in un conflitto con la NATO potrebbe avere conseguenze catastrofiche per l’intera Europa. La capacità della Russia di condurre attacchi improvvisi e preventivi con armi nucleari, combinati con dispositivi convenzionali, rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza globale.
Grazie a una sentenza che segna un precedente importante nella lotta contro il bullismo nelle scuole italiane, una giovane donna di Pescara, oggi 23enne, ha ottenuto giustizia dopo anni di sofferenza. La Corte d’Appello dell’Aquila ha condannato un istituto scolastico a risarcirla con 60mila euro per non aver adeguatamente protetto la studentessa dagli atti di bullismo subiti mentre era alle medie.
Anna (nome di fantasia) ha vissuto un vero e proprio incubo durante gli anni della scuola media. A soli 12 anni, è stata vittima di bullismo da parte di un compagno di classe. Le vessazioni erano quotidiane e spaziavano dagli insulti verbali alle umiliazioni pubbliche. “Sei una ragazza sporca, sei brutta, grassa,” erano solo alcune delle frasi che Anna si sentiva ripetere ogni giorno.
Uno degli aspetti più dolorosi della vicenda è stato l’atteggiamento degli insegnanti e del personale scolastico. Nonostante le ripetute segnalazioni da parte di Anna e dei suoi genitori, la scuola ha sistematicamente ignorato o minimizzato la gravità della situazione. Gli sporadici provvedimenti disciplinari presi nei confronti del bullo non sono stati sufficienti a fermare gli abusi.
Dopo anni di sofferenza, Anna ha trovato il coraggio di denunciare. La decisione non è stata facile: temeva le ritorsioni e il giudizio degli altri, ma sapeva che era l’unico modo per porre fine al suo incubo. La denuncia ha portato a un lungo iter giudiziario che si è concluso con la sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila.
La Corte ha riconosciuto la negligenza dell’istituto scolastico nel proteggere Anna e ha stabilito un risarcimento di 60mila euro. Questa sentenza rappresenta un riconoscimento del dolore subito dalla giovane e un monito per tutte le istituzioni scolastiche affinché prendano sul serio il problema del bullismo.
Oggi, Anna guarda al futuro con rinnovata speranza. La sua storia è diventata un simbolo di resistenza e coraggio per tutte le vittime di bullismo. Invita chiunque si trovi in una situazione simile a non avere paura di denunciare e a non soffrire in silenzio.
La vicenda di Anna non è solo una storia di sofferenza, ma anche di giustizia e speranza. La sentenza della Corte d’Appello dell’Aquila segna un passo importante nella lotta contro il bullismo nelle scuole italiane. È un richiamo alla responsabilità per tutte le istituzioni scolastiche e un messaggio di incoraggiamento per tutte le vittime: non siete soli, e la giustizia può prevalere.
La Corte Costituzionale ha emesso una sentenza storica, riconoscendo ai conviventi di fatto lo status di familiari. Con la sentenza n. 148 del 2024, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-bis, terzo comma, del Codice Civile nella parte in cui non include i conviventi di fatto tra i familiari e non riconosce come impresa familiare quella cui essi collaborano, non includendo il riconoscimento del lavoro nella famiglia, il diritto al mantenimento e i diritti partecipativi nella gestione dell'impresa familiare.
La Consulta ha richiamato l'attenzione sulla necessità di una protezione effettiva del lavoro dei conviventi di fatto, paragonabile a quella prevista per i familiari legati da matrimonio, parentela o affinità.
La decisione della Corte ha conseguenze significative sulla legge n. 76 del 2016, meglio conosciuta come legge Cirinnà, che riconosceva ai conviventi di fatto una tutela molto ridotta. Per conviventi di fatto si intendono "due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale".
La questione è stata sollevata dalla Corte di Cassazione a seguito del ricorso di una donna convivente di un uomo deceduto. La donna aveva richiesto il riconoscimento della sua quota di partecipazione in un'azienda agricola, basandosi sul lavoro svolto durante la convivenza. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello avevano respinto la richiesta, non riconoscendo il convivente di fatto come familiare ai sensi dell'art. 230-bis del Codice Civile. La Suprema Corte ha poi sottoposto la questione alla Consulta, citando la mancata considerazione delle mutate sensibilità sociali e delle aperture della giurisprudenza.
La Corte Costituzionale ha accolto le questioni di legittimità costituzionale rilevando che, in una società profondamente mutata, vi è stata un'evoluzione convergente sia della normativa nazionale sia della giurisprudenza costituzionale, comune ed europea. Tale evoluzione ha riconosciuto piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto. La Corte ha sottolineato che i diritti fondamentali, come il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni.
La tutela del lavoro è considerata uno strumento fondamentale per la realizzazione della dignità di ogni persona, sia come individuo che come componente della comunità familiare. La Corte ha quindi ritenuto irragionevole escludere il convivente di fatto dall'impresa familiare, considerando questa esclusione come un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.
La sentenza della Corte Costituzionale rappresenta un passo significativo verso il riconoscimento delle nuove forme di famiglia che caratterizzano la società contemporanea. Garantire pari diritti ai conviventi di fatto, in particolare nel contesto delle imprese familiari, risponde all'esigenza di tutelare il lavoro e la dignità di tutte le persone coinvolte, indipendentemente dal loro status giuridico.
Il Decreto Salva Casa, recentemente approvato dalla Camera dei Deputati e ora in attesa del via libera definitivo dal Senato entro il 28 luglio, introduce una serie di misure volte a semplificare la regolamentazione edilizia in Italia. Questo provvedimento, sostenuto dal Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, mira a regolarizzare molte irregolarità edilizie e facilitare i cambi di destinazione d'uso, con l'intento di mettere in circolazione migliaia di immobili e contribuire alla riduzione dei prezzi sul mercato.
Il decreto prevede la possibilità di sanare non solo irregolarità parziali, ma anche variazioni essenziali, purché realizzate contestualmente al titolo edilizio originale. Questa misura amplia significativamente il raggio d'azione della sanatoria, includendo modifiche più sostanziali rispetto al progetto iniziale.
Le procedure per i cambi di destinazione d'uso sono state semplificate. Sarà possibile effettuare tali cambi senza opere o con opere rientranti nell'edilizia libera attraverso la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (Scia). Inoltre, per i piani terra e seminterrati, i cambi saranno consentiti se autorizzati dalle leggi regionali e dai comuni
Il decreto modifica i requisiti di abitabilità, riducendo le superfici minime richieste per i micro appartamenti: 20 metri quadrati per i monolocali e 28 metri quadrati per i bilocali, con altezze minime interne di 2,40 metri. Queste modifiche mirano a rendere abitabili anche i piccoli spazi, purché rispettino i requisiti igienico-sanitari.
Sono state introdotte nuove regole per le tolleranze negli interventi edilizi. Per le unità immobiliari sotto i 60 metri quadrati, sono tollerati scostamenti fino al 6%. Questo provvedimento facilita la regolarizzazione di piccole difformità rispetto ai progetti autorizzati.
Il decreto consente il recupero dei sottotetti per aumentare l'offerta abitativa, a condizione che vengano rispettati i limiti di distanza e altezza vigenti al momento della costruzione dell'edificio.
Il decreto prevede una procedura semplificata per calcolare le somme da versare per sanare gli abusi edilizi. L'importo dell'oblazione varia a seconda che l'intervento sia soggetto a oneri. In caso affermativo, si pagherà una somma equivalente al doppio del contributo di costruzione, raddoppiato del 20%. Se non soggetto a oneri, l'oblazione corrisponderà al contributo incrementato del 20%.
La misura ha suscitato reazioni contrastanti. Matteo Salvini e altri sostenitori vedono il decreto come una "rivoluzione liberale" che semplifica la vita degli italiani e riduce i costi degli immobili. Tuttavia, le opposizioni e gruppi ambientalisti come Legambiente criticano fortemente il provvedimento, definendolo un condono che premia gli abusi edilizi, che potrebbe avere effetti negativi sul territorio nazionale.
Nei primi sei mesi dall'introduzione del limite di velocità a 30 km/h nelle strade urbane di Bologna, il numero di incidenti stradali è diminuito notevolmente. Secondo i dati forniti dal Comune, gli incidenti complessivi sono calati di quasi l'11%, mentre i feriti hanno registrato una riduzione superiore al 10%. Gli incidenti gravi, classificati dal 118 come "codice rosso", sono diminuiti del 38%, rappresentando un significativo miglioramento della sicurezza stradale.
Il numero di decessi è sceso a cinque, segnando una riduzione del 33%. Questo rappresenta il valore più basso dal 2013, paragonabile ai livelli osservati durante il periodo di lockdown per il Covid. Tuttavia, si è registrato un aumento del 66% delle persone ferite in prognosi riservata, un dato che richiede ulteriori analisi per comprenderne le cause specifiche.
L'introduzione del limite di velocità ha portato benefici anche sul fronte ambientale e della mobilità. Il traffico veicolare è diminuito del 3% e l'inquinamento legato al traffico urbano ha visto una riduzione del 23%. Questo miglioramento è stato accompagnato da un incremento significativo dell'uso della bicicletta e del bike sharing. L'uso del bike sharing è aumentato del 92%, mentre l'uso delle biciclette è cresciuto del 12%. Anche l'utilizzo dei mezzi pubblici ha visto un leggero incremento.
Si sono verificati 157 incidenti in meno (1.299 nel 2024 rispetto ai 1.456 della media 2022-2023), con una diminuzione di 145 persone ferite (1.096 rispetto a 1.241) e una riduzione media di 2,5 morti (5 rispetto ai 7,5 della media). Gli incidenti senza feriti sono diminuiti di 63 (378 contro 441). Anche gli incidenti che hanno coinvolto pedoni sono calati dell'8,01% (-14), mentre quelli che hanno coinvolto ciclisti sono aumentati del 13,77% (+27), attribuibile al notevole aumento del numero di ciclisti sulle strade monitorate (+12%).
L'assessora Valentina Orioli ha sottolineato che questi primi dati indicano una tendenza positiva, ma ha ribadito che occorrerà almeno un anno per tracciare un bilancio consolidato. Sebbene alcuni esperti rimangano scettici riguardo all'efficacia delle città a 30 km/h nella riduzione degli incidenti, i dati di Bologna sembrano confermare il successo della misura, almeno per il momento. Tuttavia, uno studio del MIT ha suggerito che le emissioni di CO2 potrebbero aumentare se le auto a combustione sono costrette a viaggiare a 30 km/h, il che potrebbe sollevare ulteriori domande sulle implicazioni ambientali a lungo termine.
L'esperimento di Bologna con il limite di velocità a 30 km/h sembra avere avuto un impatto positivo sia sulla sicurezza stradale che sulla qualità dell'aria. Mentre alcuni aspetti richiedono ulteriori approfondimenti e la sperimentazione in altre città, i risultati iniziali sono promettenti. La diminuzione degli incidenti gravi e dei decessi, insieme ai benefici ambientali, suggerisce che questa misura potrebbe essere una strada percorribile per migliorare la vivibilità urbana.
L'Italia si prepara a rivoluzionare il modo in cui gestiamo i nostri documenti personali con il lancio dell'IT Wallet, un portafoglio digitale che permetterà di conservare e utilizzare una vasta gamma di documenti direttamente dal proprio smartphone. La sperimentazione del progetto partirà il 15 luglio, coinvolgendo inizialmente un campione di cittadini già utenti dell'App IO, la piattaforma utilizzata dalla Pubblica Amministrazione per comunicare con i cittadini.
La prima fase di sperimentazione vedrà coinvolto un campione rappresentativo della popolazione, scelto in base a criteri come età, regione di provenienza e professione. Questi cittadini riceveranno una notifica sull'App IO, informandoli che possono ora accedere ai loro documenti digitali, tra cui patente e tessera sanitaria. Questa fase servirà a testare il sistema e raccogliere feedback per eventuali miglioramenti.
In autunno, l'IT Wallet sarà reso disponibile a un numero sempre maggiore di cittadini, permettendo loro di richiedere gratuitamente patente, tessera sanitaria e carta europea della disabilità attraverso l'App IO. Entro la fine dell'anno, o al massimo all'inizio del 2025, sarà possibile aggiungere anche la carta d'identità elettronica. Durante questi mesi, enti pubblici e privati dovranno adeguarsi con strumenti di lettura digitale per facilitare l'uso dei nuovi documenti.
L'IT Wallet rappresenta il primo passo verso l'implementazione dello European Digital Identity (Eudi) Wallet, un sistema che, entro il 2026, dovrà essere accettato da tutti i Paesi dell'Unione Europea. Questo permetterà ai cittadini europei di identificarsi online in modo sicuro e condividere documenti e certificati, come la patente di guida, il diploma o i dettagli del proprio conto bancario, con fornitori di servizi sia pubblici che privati.
Per attivare l'IT Wallet, i cittadini dovranno scaricare l'App IO e accedere utilizzando la Carta d'Identità Elettronica o lo SPID. In futuro, l'IT Wallet potrebbe diventare un'app indipendente, separata dall'App IO.
Grazie all'IT Wallet, sarà possibile svolgere numerose attività con pochi click, come acquistare farmaci che richiedono una ricetta medica, noleggiare un'auto o acquistare una SIM per lo smartphone, senza bisogno di presentare documenti fisici. Il portafoglio digitale garantirà inoltre la sicurezza dei dati grazie a due livelli di validazione dei documenti, proteggendo così da possibili malfunzionamenti o intrusioni da parte di malintenzionati.
Anche le aziende private potranno sviluppare soluzioni di portafoglio digitale accreditandosi su una specifica infrastruttura online. Dopo un percorso di qualifica e certificazione, queste aziende potranno proporre nuovi e-wallet, arricchendo ulteriormente l'ecosistema del portafoglio digitale.
Si stima che l'IT Wallet interesserà una platea di circa 44,5 milioni di persone. Nonostante l'adozione su larga scala, l'uso del portafoglio digitale non sarà obbligatorio: i documenti fisici resteranno validi e non è prevista alcuna data per la loro dismissione definitiva. Il progetto rappresenta un passo cruciale verso la semplificazione e la digitalizzazione, offrendo un sistema affidabile e sicuro per la gestione dei documenti personali.
L'IT Wallet, insieme all'Eudi Wallet europeo, punta non solo a semplificare l'accesso ai servizi pubblici e privati, ma anche a proteggere i cittadini da truffe, frodi e furti d'identità. Questo innovativo sistema di riconoscimento digitale consentirà agli utenti di interagire facilmente con istituzioni e aziende, migliorando l'efficienza e la sicurezza delle operazioni quotidiane.
L'introduzione dell'IT Wallet segna un'importante evoluzione nella gestione dei documenti personali in Italia. Grazie a questo strumento, i cittadini potranno godere di una maggiore comodità e sicurezza nella loro vita digitale, mentre l'intera Unione Europea si muove verso un futuro in cui le identità digitali saranno sempre più integrate e riconosciute a livello internazionale.
Il governo italiano ha introdotto un'importante novità per le imprese che assumono a tempo indeterminato. Un recente decreto attuativo del ministero dell'Economia, congiuntamente con il ministero del Lavoro, ha infatti stabilito un significativo incentivo fiscale: una maxi-deduzione del costo del lavoro fino al 120%, che può salire al 130% in determinati casi.
Il decreto si inserisce nell’ambito della riforma dell’Irpef e prevede, per l'anno corrente, una maggiorazione del costo del lavoro ammesso in deduzione pari al 120% per le aziende che incrementano il numero di dipendenti a tempo indeterminato. Questo incentivo mira a stimolare l'occupazione stabile, incentivando le imprese a offrire contratti di lavoro duraturi.
Un'ulteriore maggiorazione, con deduzione al 130%, è prevista per le assunzioni di lavoratori appartenenti a categorie meritevoli di maggiore tutela. Tra queste categorie rientrano le persone con disabilità, le donne con almeno due figli e i giovani che beneficiano di specifici incentivi all’occupazione.
Il decreto specifica che la maggiorazione del costo del lavoro è applicabile ai titolari di reddito d’impresa e agli esercenti arti e professioni, per il periodo d’imposta successivo al 31 dicembre 2023. La deduzione riguarda esclusivamente il personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Per beneficiare dell’incentivo, le aziende devono registrare un incremento del numero di lavoratori a tempo indeterminato rispetto al periodo d’imposta precedente. In altre parole, l’agevolazione è valida solo se, al termine del periodo d’imposta successivo al 31 dicembre 2023, il numero di dipendenti stabili è superiore a quello mediamente occupato nell’anno precedente.
Non tutte le aziende possono usufruire di questo beneficio. Sono escluse le imprese in liquidazione ordinaria e quelle sottoposte a procedure di liquidazione giudiziale o altre procedure liquidatorie legate alla crisi aziendale. Questo per garantire che l'incentivo sia utilizzato per promuovere effettivamente l'occupazione stabile e non per sostenere aziende in chiusura o in difficoltà strutturali.
L'introduzione di questa maxi-deduzione rappresenta una mossa strategica per promuovere l'occupazione stabile in Italia. Riducendo i costi fiscali per le aziende che assumono a tempo indeterminato, il governo mira a incentivare contratti di lavoro più sicuri e duraturi, contribuendo così alla stabilità economica dei lavoratori e delle loro famiglie.
Inoltre, l'attenzione particolare alle categorie vulnerabili, come le persone con disabilità e le donne con figli, evidenzia l’impegno del governo nel promuovere l’inclusione sociale e lavorativa. Incentivare l’assunzione di questi gruppi può avere un impatto positivo sulla loro integrazione nel mercato del lavoro, riducendo le disuguaglianze e migliorando la coesione sociale.